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L'odiosa spocchia dell'ambasciatore Quinath.
- Scritto da Mike Steinberg
- Categoria: La Guerra Delle Lance
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I nostri eroi seguirono Eiliana a passo svelto. Suo fratello Kirin era già andato a chiedere udienza presso l’abitazione dell’ambasciatore Quinath una mezzora prima, ed ora la compagnia doveva confrontarsi necessariamente con lui per capire quanta assistenza avrebbero avuto dai silvani per la loro prossima impresa. Certo, Eiliana avrebbe voluto parlare con lui avendo in mano già un piano o perlomeno una bozza, ma tant’era.
Il quartiere nobiliare era stato costruito un po’ più in profondità nella foresta, più o meno nella parte centro nord di Silvamori e, neanche a dirlo, era stata edificato con molta più cura ed attenzione ai particolari rispetto ai quartieri popolari. Pertanto le abitazioni erano sì delle piccole casupole in legno, ma molto meglio rifinite e più in linea con l’architettura elfica classica. Questa “differenza” spiccava in maniera marcata, evidenziandole inequivocabilmente come appartenenti "all’elite sociale di Silvamori", sempre che questa frase potesse ancora aver senso, data l'attuale condizioni dei silvani. Ognuna di queste case portava il nome del nobile di riferimento inciso sulla porta d’ingresso e, più era importante questo nobile, più gli abbellimenti e ghirigori vari potevano esser notati chiaramente sull’uscio e più in generale sull’intero edificio.
Kail ebbe da subito una brutta sensazione a riguardo. Come quando era entrato per la prima volta nella "città - campo", ed aveva udito il nome di Quinath, anche adesso ebbe la medesima percezione di disagio e malessere. In qualche modo sapeva che avrebbero avuto una conversazione assai difficile con lui, poiché l’ambasciatore silvano rappresentava davvero il peggio di ciò che la personalità e l’atteggiamento dei Silvanesti, per cui si erano spesso resi famosi e riconoscibili presso gli altri regni, raggiungevano il loro acme più negativo.
Primi tra tutti la spocchiosità e l’arroganza.
Eiliana bussò con fermezza e una voce quasi stridente dall’altra parte la invitò ad entrare. Dietro un tavolo di faggio prezioso era seduto un elfo anziano. Meno anziano di Demetrius, ma molto più avanti con l’età rispetto ad Eiliana e Kirin. Suo fratello sostava a pochi metri dall’uscio, in piedi su un raro ed elaborato tappeto, che Quinath aveva preteso fosse trasportato direttamente da Silvanesti a Silvamori.
Non appena Eiliana salutò e si presentò all’ambasciatore, il suo consanguineo si accomiatò da Quinath, le passò di lato, ed uscì quasi di corsa dalla sua casa. Aveva quasi trattenuto il fiato per tutto quel tempo, ed osservandolo attentamente mentre gli passava oltre, Kail notò che era arrabbiato, ma anche felice e sollevato di poter tornare ai suoi affari. Contento di essersi lasciato il peggio della sua razza alle spalle.
Eiliana cercò di dissimulare la sgradevole reazione del fratello e con un ampio gesto della mano introdusse i nostri eroi, invitandoli ad avanzare e raggiungerla al centro della stanza.
“Sicchè questi sarebbero i nostri ospiti: coloro che hanno scortato l’uomo dal “braccio d’argento” alla “Montagna del Drago”. Non ci siamo presentati adeguatamente al concilio di Whitestone. Con chi avrei l’onore di parlare?”
Esordì Quinath, alzandosi lentamente dalla sedia. L’elfo aveva i capelli lievemente tinti d’argento, portava una vestaglia di seta rossa, ed emanava una fragranza quasi fastidiosa, per quanti profumi diversi aveva cosparsi su di sé.
L’ambasciatore stava parlando in lingua comune, ma guardava solo Eiliana, come se lei fosse l’unica nella stanza degna della sua attenzione. Kail ignorò le sue provocazioni, si schiarì la voce e si presentò. Poi mosse la mano verso Estellen, nel tentativo di spiegare chi fosse la santa donna che accompagnava e perché adesso si trovassero lì. Tuttavia Quinath lo interruppe, lasciando il mezzelfo sorpreso e infastidito.
“Ah si, il mezzelfo… non è forse vero che vostra madre sia la strega Eyne Londelle? Colei che ha abbracciato la fede in Takhisis, perdendo di vista la via della luce? Come dovrei interpretare il fatto che voi siate un mezzelfo, ditemi… vostra madre e vostro padre si sono forse sposati? O, come molto spesso avviene in questi… casi… siete un figlio illegittimo o peggio, di una violenza?”
Kail si trattenne per non rispondere a tono a quelle pesanti insinuazioni, ma evitò saggiamente di farlo. La posta era alta e quell’elfo era un politico. Se gli avesse fornito un pretesto per non essere aiutato, lui l’avrebbe preso al volo. Si limitò a raccontare molto brevemente le circostanze dell’incontro tra sua madre e suo padre, ma senza entrare troppo nei particolari.
L’espressione sul viso di Quinath fu tanto sprezzante quanto disgustata. Tuttavia quello era solo l’inizio: l’ambasciatore non aveva affatto finito di "simpatizzare" con i suoi ospiti.
“E voi cavaliere? So che avete disubbidito ad un ordine diretto di vostro padre e vostro nonno e come conseguenza siete stato processato. Per cosa poi, per aver voluto scortare questa giovane in lungo e largo attraverso il continente, perdendo la vostra credibilità e il vostro onore? Siete uno strano cavaliere, me lo concederete.”
Stuard si morse la lingua per non replicare piccato a quel presuntuoso e superbo elfo. Riferì soltanto le sue generalità, limitandosi a dire che la missione di Estellen non era “girovagare senza meta per Krynn”, ma svolgere dei compiti precisi per conto di Paladine. Questo gli era parso un motivo sufficiente per disubbidire ad un ordine di suo padre.
“Certo, certo…”
Commentò sarcasticamente Quinath. Poi si voltò verso la sacerdotessa del drago di platino e le disse:
“E voi, mia signora Estellen. Eiliana mi ha parlato molto di voi, cosi come dei vostri amici, si capisce. Voi dite di essere una prediletta di Paladine, eppure l’antico credo di E’li si è perso nella memoria del tempo. Forse un giorno mi ricrederò su di voi, quando porterete cose concrete, come i precetti inscritti su dischi di Mishakal per esempio. Fino ad allora, per me sarete, scusate la franchezza, come un’ibrida ed inutile via di mezzo. Non abbastanza per essere considerata una vera sacerdotessa di E’li, ma sicuramente molto, molto più degna rispetto a quei ciarlatani della chiesa dei cercatori. Di certo una creatura baciata dagli dei, questo ve lo riconosco. Non intendo contraddire le parole di lady Starbreeze, non avendo alcun motivo per non creder ad esse, ma voi pronunciate il nome di Paladine, come lo chiamate voi umani, senza sapere nulla di lui. Non sapete nulla infatti della sua chiesa e del suo dogma. Mi perdonerete dunque se non nutro molta fiducia nelle vostre azioni, passate e future.“
Estellen arrossì per la rabbia e la vergogna, ma riuscì comunque a contenersi. In fondo si era aspettata parole molto più velenose di quelle da una persona del genere. Le sembrò sufficiente ribadire come i loro destini (i destini di tutti) fossero nelle mani di Paladine e che lei non faceva altro che tentare di realizzare la sua volontà al meglio delle sue possibilità.
Quinath ebbe la reazione meno stomacata rispetto alle altre nell’udire le sue parole, annuendo ad esse anche se in maniera non troppo convinta.
“Di voi infine so troppo poco, mago, ma il vostro bastone mi infastidisce abbastanza da sapere che non avete nulla di valido da offrirmi come garanzia per rischiare la vita dei miei uomini e farvi accompagnare a Pontigoth. E con questo, credo che non abbiamo più nulla da dirci, signori.”
L’ultima dichiarazione di Quinath lasciò spiazzata perfino Eiliana, che si era aspettata una conversazione ostica, ma non ostile come era stata per tutto il tempo. L’ambasciatore aveva chiuso loro la porta in faccia e non c’era molto altro che lei potesse fare per cambiare le carte in tavola. Iniziò a discutere fittamente con lui in elfico, parlando velocemente e in maniera nervosa, quasi arrabbiata. Perfino Kail faticava a seguire quanto gli stava vomitando contro. Il nobile l’ascoltava con pazienza, con un lieve e condiscendente sorriso sulle labbra, come si faceva con i bambini capricciosi. Si era rimesso seduto e teneva le mani conserte davanti al proprio viso in attesa che lei finisse di vaneggiare. Poi replicò in comune, sempre guardandola negli occhi.
“Non apprezzo gli umani, lady Starbreeze… ormai l’avrete capito. Non amo l’improvvisazione. Come quel maledetto Kender, che ha distrutto il “globo dei draghi” e con esso probabilmente ogni possibilità di sopravvivenza per la nostra razza. Quando tornerà la mia amata Alhana, voglio consegnarle il miglior governo possibile. Belthanos è molto saggio e seguirà sempre il mio consiglio. Pertanto, se fossi in voi, mi rassegnerei.”
Stuard era quasi tentato di rivelare a Quinath che il cuore di Alhana non gli apparteneva più, anzi, che forse non gli era mai appartenuto. Stava davvero per farlo, sottolineando come la regina dei silvani avesse regalato il suo amore, più profondo e devoto, ad un semplice umano. Un cavaliere come lui. Uno di quelli insomma che egli tanto disprezzava, ma per fortuna si trattenne o sarebbe davvero scoppiato un disastro incontenibile. Il cavaliere fece un bel respiro e anche quella volta si calmò.
Poi Eiliana, a chiosa di quella conversazione, esplose in lingua comune:
“Ambasciatore Quinath, io andrò con questi avventurieri in missione per conto di E’li e li aiuterò se potrò, con o senza il vostro appoggio. Meglio che voi lo sappiate adesso, prima che io sparisca e che voi vi chiediate dove potrei esser finita…”
Quinath fece schioccare le labbra in segno di disappunto, poi le rispose in elfico.
“Mi spiace molto che la vostra posizione sia questa, lady Starbreeze, ma gli elfi silvani non appoggeranno alcun piano suicida. Raggiungere Daltigoth? E per chi? Noi non dobbiamo niente a questa gente, anzi…”
Eiliana attese una paio di secondi prima di voltarsi ed uscire a grandi passi dalla casa di quell’elfo così spocchioso. Nel frattempo le sue nocche si erano sbiancate per la rabbia. Quasi urlò per la frustrazione una volta fuori. Furibonda come Kail mai l’aveva vista prima, decise di tornare indietro al posto di guardia da suo fratello. Adesso doveva escogitare un sistema alternativo per offrire copertura alla compagnia!
Il mezzelfo aveva appena proposto ad Eiliana di far visita alle due città Kagonesti di Sun e Rain e magari trovare lì la loro necessaria copertura, quando l’elfa si fermò, ed iniziò ad osservare insistentemente un cespuglio poco distante. A dire il vero anche Kail aveva udito uno strano fruscio provenire da quella parte. Mettendo le braccia a brocchetta e tamburellando con un piede sul terreno, Eiliana esordì con aria truce:
“Alchem, so che si lì dietro… esci fuori da quel cespuglio, immediatamente!”
L’intera compagnia si guardò l’uno con l’altro assai perplessa. Poi un giovanissimo elfo kagonesti spuntò timidamente da dietro la macchia di alberi, come fosse un’ombra scura in movimento.
“Che ci fai qui, Alchem, figlio di Ichlem?”
Eiliana manteneva severamente una mano sul fianco e agitava l’indice in direzione del ragazzino, imbarazzato e con lo sguardo basso innanzi a lei. I due comunicavano in un elfico molto strano, tanto che perfino Kail comprendeva davvero poco di quello che si stavano dicendo.
Dall’espressione che via via mutava sul volto della sua amata però, il mezzelfo capì che doveva trattarsi di qualcosa di importante. Perlomeno importante per quel ragazzo. Eiliana invitò il giovane a calmarsi, poi a parlare con Kail, utilizzando la lingua elfica standard, altrimenti egli non l’avrebbe inteso.
Prima di andare, l’elfa volle tradurre al suo promesso ciò che il giovane le aveva appena rivelato:
“Sono venuto per loro, mia signora Eiliana. Li ho visti in sogno, che proteggevano mio fratello in un posto assai lontano e pericoloso.”
La cugina della regina fece sprofondare in questo modo la compagnia nel più completo e totale mutismo. Dopodiché li avvertì che mentre loro avrebbero parlato con il piccolo Kagonesti, lei avrebbe contattato Valdore per capire come gestire quella situazione. Bisognava velocizzare i tempi, dopo l’intoppo con Quinath.
“Mi occuperò di parlare con Valdore, chiedendogli di farsi trovare alla porta sud ovest di Daltigoth… da lì penserà lui alla scelta migliore da fare per farci attraversare la città senza troppi rischi… finito qui, con lui… riposatevi: domani avremo molto da fare.”
Eiliana fissò per un momento Alchem, poi si ritirò. Kail la guardò allontanarsi e non poté non essere fiero di lei e contento per sé stesso di averla incontrata. Poi scosse la testa come per riprendersi da pensieri sicuramente inopportuni in quel momento e si avvicinò di un passo al ragazzo. Provando a parlare più lentamente che poteva, cercò di comunicargli che, purtroppo per lui, non credeva proprio di conoscere suo fratello. Dopo una pausa intensa di qualche secondo, per puro scrupolo, domandò ad Alchem come si chiamasse il suo consanguineo.
“Il suo nome umano è Attilus, mio signore… e si accompagnava a mia sorella Raegina. Nel mio sogno ho visto il sorriso di quella donna, lo scudo di quell’uomo e la vostra spada scintillante, proteggerlo da morte certa. Vorrei conoscere la verità, se voi la conoscete.”
Il mezzelfo spalancò la bocca incredulo!
Lui ed i suoi amici avevano conosciuto un "Attilus", molti mesi prima. Si trattava di un Kagonesti, impazzito per via delle torture inflitte a sua sorella dalla mano di un orco che comandava la criminalità locale di una piccola cittadina nelle terre selvagge. I suoi ricordi, così come quelli dei suoi compagni, erano nebulosi circa i dettagli del loro incontro, ma rammentava bene che si trattava di un sicario di un altro boss locale. Tuttavia, per quanto le sue azioni fossero state spesso riprovevoli, erano dettate dalla disperazione e dal ricatto. Pertanto il re di Vantal, che li teneva in grande stima per averlo salvato, giurò loro che l’avrebbe risparmiato dalla forca e che sarebbe stato trattato tenendo conto delle sue attenuanti. Lo avevano lasciato prigioniero, ma vivo.
Ovviamente il mezzelfo edulcorò molto il racconto, ma cercò di riportare ogni dettaglio importante che ricordasse. Lui sapeva bene che cosa volesse dire “il non sapere”: la lenta agonia di una mente che cercava delle risposte senza però trovarle da nessuna parte. Non voleva che quel fanciullo provasse la sua stessa, terribile disperazione, che ancora oggi lo accompagnava in ogni luogo che raggiungeva.
Quando il gruppo finì di aggiungere dettagli alla narrazione di Kail (anche Estellen e Stuard riportarono alcune cose importanti in merito), il giovanissimo Kagonesti annuì e disse laconicamente:
“Vi ringrazio, miei signori del popolo della “gente alta”. Non dimenticherò mai questo giorno uggioso e la speranza che mi avete donato di rivedere mio fratello. Che E’li guidi sempre i vostri passi.”
Detto questo sparì in un baleno nella foresta. In un attimo non c’era più.
Fu allora che il mezzelfo capì che Alchem aveva permesso che lui ed Eiliana lo scorgessero in quel cespuglio. Se non avesse voluto farsi vedere, nessuno di loro ci sarebbe riuscito.
“Un’abilità davvero impressionante…”
Pensò Kail tra sé.
In cuor suo il mezzelfo sperò vivamente che quel ragazzo riuscisse un giorno a riunirsi con suo fratello. Glielo augurò davvero con tutto il cuore.
La trappola.
- Scritto da Mike Steinberg
- Categoria: Le Origini Di Kail
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Kail spronò Aghnes lungo il sentiero che calava dalla collina ove sorgeva il maniero Uth Breannar. Attraversarono insieme i campi e il fiume, fino a scendere a valle. Il feudo, patrocinato dal cavaliere della Rosa Gerald Uth Breannar, era ancora immerso nei festeggiamenti legati alla nascita del terzo nipote del famoso cavaliere, quando il mezzelfo, schivando saltimbanchi e orchestre, scivolò silenzioso oltre la loro vista diretto a Knollwood. Non si trattava di un tragitto lungo: giusto un paio d’ore e si sarebbe ricongiunto con Galeth. Kail non conosceva benissimo quel villaggio, a differenza del mercenario. C’era passato alcune volte in passato, ma non poteva affermare di sapersi orientare perfettamente laggiù. Tuttavia non poteva certo essere così difficile. Il villaggio era piccolo e sarebbe bastato chiedere per trovare la locanda del “Tasso Argentato”. La sera era giunta da poco quando Aghnes e il suo cavaliere entrarono al passo a Knolwood e subito qualcosa di insolito aggredì il temprato sesto senso del mezzelfo. Il borgo sembrava deserto. Le strade erano vuote, non c’erano contadini che tornavano dai campi, né boscaioli o cacciatori che rincasavano. Ogni tanto si udiva il nitrito di un cavallo, il latrare di un cane, ma presenze umane: zero. Eppure dalle luci che Kail poteva intravedere oltre le finestre sbarrate, non c’erano dubbi chela gente ci fosse. Era certamente una serata fredda, ma non abbastanza per giustificare tutto quel silenzio. Kail fu tentato di fermarsi e bussare, perlomeno per chiedere dove fosse la dannata locanda che cercava, se non per mitigare la curiosità lacerante del perché nessuno circolasse per le buie vie. Tuttavia non ce ne fu bisogno, perché il “Tasso Argentato” apparve davanti a lui dopo l’ultima svolta. Il mezzelfo tirò le redini e Aghnes si fermò. Nella locanda c’era indubbiamente qualcuno e questo era un buon segno, ma il cavallo di Galeth non era legato alla staccionata esterna. E questo invece era strano. Kail iniziò a preoccuparsi. Smontò da cavallo ed entrò, tenendo le mani sotto il mantello pronto a sguainare le armi. La taverna era accogliente. Piccola, molto pulita ma piena di fumo e con odori di spezie molto forti nell’aria. Due avventori dalla faccia poco raccomandabile sedevano alla fine del locale, occupando due tavoli diversi. I due brutti ceffi lo salutarono con un gesto accennato del mento quando entrò e Kail fece altrettanto. Non sapeva se davvero i due l’avevano riconosciuto o l’avevano salutato solo per una mera formalità, ma scommetteva il suo miglior pugnale che l’avevano fatto perché erano mercenari come lui. Che avevano fiutato il suo odore. All’improvviso, un oste tarchiato, sulla sessantina, con la parannanza e una folta barba grigia, lo accolse cordialmente. Si pulì le mani sul grembiule e quando Kail gli domandò di Galeth, egli rispose così: “Si, Galeth è passato, ma ha detto che aveva da fare e che sarebbe tornato presto. Se volete aspettarlo, posso portarvi una birra nel frattempo …” L’oste aveva gli occhi furbi e un fare sbrigativo di chi sapeva sempre capire come fare un buon affare. Kail annuì e ordinò anche un pasto caldo visto che c’era. L’oste ovviamente non poté che esserne contento e sparì nelle cucina, invitandolo ad accomodarsi. Quando si voltò e se ne andò, l’olfatto affilato del mezzelfo percepì sulle sue mani e su suo grembiule un aroma strano, che lì per lì non riuscì a definire subito, ma che istintivamente lo mise in guardia. Kail scelse un tavolo di mezzo, dove potesse controllare ogni cosa nel locale, ma girandosi un momento verso un altro tavolo notò dei dettagli che gli fecero cambiare idea. Delle tracce di birra rancida sporcavano il pavimento, per il resto pulitissimo, ed una sedia rotta era stata spostata da quel punto e messa momentaneamente da una parte. Istintivamente scelse quel posto e come lo fece, i due uomini che aveva alle spalle sembrarono diventare stranamente nervosi. Nel frattempo l’oste tornò con un boccale di birra e la promessa che la cena sarebbe stata servita quanto prima. C’era qualcosa che proprio non andava in quella taverna. Ma cosa? Kail afferrò il boccale, ma lo sguardo gli scivolò sul tavolo e lì vide un’incisione. Un incisione troppo strana perché potesse essere casuale. Con un coltello era stata graffiata una sigla che non poteva non notare. Essa recitava: KUM. Kail Uth Mohdi! Era solo un segno in mezzo a mille, ma come era stato per i sassi al “passo dell’orso”, un occhio attento come il suo non poteva non vederlo. Si trattava di Galeth. Gli era successo qualcosa. Perso nei suoi pensieri, Kail portò il boccale alle labbra e in quel momento capì cosa fossero quei strani effluvi che aveva annusato sull’oste. Si trattava di Belladonna: un’erba che cresceva solo in posti particolarmente umidi, che se distillata nel giusto modo, diventava un potente narcotico. Il mezzelfo appoggiò il boccale sul tavolo. Sentì un rumore quasi d’impazienza alle sue spalle, mentre iniziava a capire cosa fosse successo. Galeth era seduto qui, nemmeno cinque o sei ore prima a giudicare da quanto puzzava quella birra per terra. Era stato drogato e scivolando aveva rotto la sedia che era stata spostata di lato. Tuttavia, prima di perdere i sensi aveva lasciato con il coltello quella sigla per lui. Ora la domanda era: come diavolo faceva a scoprire dove fosse finito il mercenario? L’oste nel frattempo era entrato ed uscito dalle cucine per ben tre volte. Sembrava come se stesse controllando qualcosa. Certo, verificava se avesse bevuto o meno! Il mezzelfo non sapeva molto della Belladonna ma immaginava che l’effetto stordente non fosse immediato. Almeno riflettendo su quanto ci aveva messo Galeth ad incidere quella sigla sul tavolino. Sicuramente avrebbe avuto qualche secondo, da quando avesse bevuto a quando si sarebbe addormentato. Pertanto fece scattare la sua trappola. Portò il bicchiere nuovamente alla bocca e fece finta di bere un lungo sorso. Con la coda dell’occhio osservò la reazione dei due manigoldi alle sue spalle. Essi si ritrassero sulle sedie, visibilmente più rilassati. Poi fecero un segnale all’oste, quasi impossibile da notare, ma non per uno come Kail. A quel punto l’oste uscì dalle cucine in tutta fretta e disse: “Scusate mio signore, vado un secondo alla latrina. Torno subito… giusto in tempo per portarvi la cena.” Kail annuì, mentre l’oste usciva nel buio della notte. Vedendo la trepidazione che cresceva nei mercenari, decise che era il momento di mettere in pratica il suo piano. Sbadigliò e si accoccolò sul tavolo, mettendo la testa tra le mani. I due uomini a quel punto si alzarono. Dai loro brevi discorsi, Kail non capì molto chi fossero, ma intuì chi era il loro mandante: il maledetto Corvo Rosso! I suoi sospetti erano reali dunque: quel furfante, in qualche modo, era venuto a sapere di Galeth e questo poteva solo far pensare che ad Elmwood qualche spia doveva aver riferito a uno dei suoi sicari che il mercenario era coinvolto nell’affare della neonata. Mentre i due lestofanti lo tiravano su, trascinandolo tosto nelle cucine, Kail ebbe un brivido freddo. Se la rete dei Corvi Rossi era così fitta, doveva assolutamente andar via di lì. Se teneva alla vita di Erstellen, doveva trovare Galeth (se era ancora vivo) e poi tagliare la corda. Fuggire nell’Ergoth del Sud il prima possibile! Ormai il uso viaggio non era solo una missione, ma anche l’unica strada percorribile per sopravvivere. A meno di voler affrontare da solo questa banda di criminali organizzati e con agganci potenti in tutta la Solamnia. Dalle cucine, i mercenari lo trasportarono nelle cantine, fermandosi innanzi una porta di legno chiusa. Nel tragitto, Kail poté notare un piccolo laboratorio alchemico vicino al tavolo da mattatoio: un forte odore di Belladonna saliva ancora su da un paio d’alambicchi fumanti. Uno dei due uomini continuò a sorreggere il mezzelfo per le ascelle, mentre l’altro diede le spalle ad entrambi, cercando di aprire la porta con una rozza chiave di ferro. Quello fu il momento che Kail scelse per agire. Si tirò su come un gatto, spada in pugno. Con un movimento fluido, trafisse mortalmente al collo l’uomo alla porta. Poi si voltò e attaccò anche il secondo, che certamente non si era aspettato una cosa del genere. L’uomo tentò di urlare, ma ne uscì solo un rantolo strozzato quando la spada di Kail gli entrò in bocca trapassandogli il cranio. Rapidamente, il mezzelfo aprì la porta e trovò dentro la stanza Galeth, legato e imbavagliato ad una sedia. Come un lampo gli si avvicinò, lo slegò e lo prese a schiaffi per farlo riprendere. Le cucine avevano un’uscita posteriore, soluzione che il mezzelfo valutò per un breve istante, ma avrebbe rischiato di perdere Aghnes e non poteva permettersi di farlo. Quindi, sorreggendo il mercenario per quanto potesse riuscire, superò i cadaveri dei due lestofanti ed uscì dalla porta principale. Giusto in tempo per vedere delle sagome scure avvicinarsi da est. Purtroppo però, anche Aghnes era sparita e questo dettaglio poteva rappresentare la loro fine! Tuttavia Galeth riferì che prima di svenire aveva sentito l’oste dire ai mercenari di portare il suo cavallo nelle stalle della locanda: forse anche la sua puledra si trovava lì. Dovevano rischiare. Si nascosero e scivolarono tra le ombre fino ad aggirare la locanda. Avevano poco tempo. L’oste e gli uomini che lo accompagnavano non avrebbero impiegato molto a scoprire che entrambi erano scappati! Giunsero alle stalle chiuse e i due uomini annuirono: dovevano far presto o li avrebbero presi e questo poteva significare la morte di molte persone innocenti. Oltre a quella più che probabile della piccola Erstellen. Kail bussò e dall’altra parte dei passi si avvicinarono alla porta della stalla. “Chi è?” Domandò una voce ovattata. A quel punto Galeth si schiarì la gola e rispose imponente: “Sono io! Apri subito imbecille!” Giocandosi il tutto per tutto. L’uomo dall’altra parte cadde nella trappola dei due compagni e un pugno ben assestato del mezzelfo lo mise facilmente al tappeto. Erano stati fortunati, perché c’era un solo uomo di guardia, ed era un mercenario locale. Se fosse stato un sicario dei Corvi avrebbe dato ben più filo da torcere. Kail e Galeth, salirono a cavallo e anche se l’omone aveva ancora la testa che gli girava, uscirono al galoppo dalla stalla. Direzione sud, verso Port o’Call! Appena in tempo! Perché a meno di trenta metri, delle sagome scure si stavano minacciosamente avvicinando. Tra queste, una incuriosì e allo stesso tempo terrorizzò il mezzelfo. Si trattava di qualcuno molto grosso, vestito completamente di nero. Una figura tetra, resa ancor più inquietante da un rigonfiamento che aveva sulla schiena, come se portasse uno scudo legato dietro, ma tenuto sotto la pesante mantella col cappuccio che gli velava il volto. Era distante, ma Kail provò un tremore gelido quando i suoi occhi leggermente obliqui si posarono su di lui. Anche perché il suo medaglione maledetto iniziò a vibrare tanto intensamente che il mezzelfo pensò esplodesse.
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