Kail seguì da presso la fugace figura, che era passata per un secondo nel corridoio di fronte a lui, scoprendo, voltando l’angolo, quello che in realtà aveva sempre sospettato.
Fin da quando aveva messo piede in quel dannato labirinto e gli avevano spiegato come li avrebbe aggrediti, il “Guardiano”, aveva avuto la sensazione che l’avrebbe “incontrata”. Quando l’esile sagoma vestita di abiti scuri e lisi si voltò verso di lui e la sua vista superiore la mise a fuoco, benché ancora distante, notò chiaramente che si trattava di un’elfa e seppe, pur non avendola mai vista prima, che si trattava di sua madre: Eyne Londelle!
Tuttavia c’era qualcosa che non gli quadrava.
Sua madre infatti era molte cose per lui, ma non l’aveva mai ritenuta “la sua più grande paura”. Kail non sentiva di temerla, assolutamente. Piuttosto era certo che lei fosse la persona che più odiava al mondo e questo era strano. Aveva capito, infatti, che il “Guardiano” facesse leva su sentimenti diversi dall’odio per attaccare le sue vittime. Inarcando un sopracciglio, pensò che avrebbe voluto discutere con lui circa i criteri con cui sceglieva “le paure” dentro i cuori delle persone.
La minuta elfa, dagli occhi obliqui e dalle orecchie a punta, si mosse con passo fermo nella sua direzione e Kail notò che con la mano sinistra si reggeva il fianco. Sottili lingue di sangue le filtravano dalle dita, finendole lungo le pieghe della veste nera e poi in terra, formando una scia cremisi assai inquietante. Kail deglutì: aveva sognato quel momento, l’incontro con sua madre, per tutta la vita e l’aveva immaginato in mille modi diversi. Anche se in tutti gli scenari finiva sempre con lui che la pugnalava a morte con la sua daga, adesso si sentiva fremere per l’ansia e per il nervoso.
Ovviamente sapeva che quella situazione non era reale, che era solo un prodotto della sua immaginazione: quell’elfa non era davvero sua madre, ma era solamente la proiezione di ciò che lui pensava di lei. Tuttavia si tenne pronto per qualsiasi evenienza: non temerla non significava sottovalutarla.
L’elfa aveva un aspetto esotico, ed era di una bellezza disarmante. Gli occhi verdi, i capelli neri come la pece ed i suoi modi misurati, le conferivano un aspetto regale e altezzoso, mentre il suo sguardo sprezzante sottolineava che era una donna che era abituata a prendersi ciò che voleva.
“E così tu saresti il mio figlio bastardo…”
Esordì Eyne Londelle, mentre girava attorno a Kail per esaminarlo meglio.
“Di mio non ti è arrivato nulla, da quel che vedo qui…”.
L’elfa terminò il suo giro attorno al figlio, mettendosi poi proprio davanti a lui. Il mezzelfo non riusciva a spiccicare una parola: pur sapendo che si trattava di una finzione, di un costrutto, per lui era estremamente reale.
“Che c’è, non parli?”
Incalzò sua madre, con voce sferzante.
“Non ho nulla da dirti..”
Rispose Kail, lo sguardo rivolto davanti a sé, oltre la testa della madre.
“Immaginavo: codardo come tuo padre. Avrebbe avuto un senso la tua nascita, se lui mi avesse permesso di sacrificarti a Takhisis. Invece ha scelto di fermarmi e salvarti: quale spreco… Io, una delle prime “risvegliate” della dea oscura, messa alla gogna da un misero mortale in armatura, costretta a fuggire come un ratto, per colpa di un cavaliere senza onore… senza dignità.”
Kail abbassò gli occhi. Astarte gli aveva raccontato bene la storia di come suo padre e sua madre si erano “lasciati”. Lui l’aveva quasi uccisa, dopo aver scoperto le sue intenzioni riguardo il loro unico figlio, da poco venuto al mondo. Eyne lo avrebbe sacrificato a Takhisis: in cambio, il suo sangue, bagnando il medaglione che lei portava al collo, le avrebbe conferito un grande potere: il famigerato e ai più sconosciuto, potere dello "Witcher". Con quello, sarebbe diventata talmente potente da sfidare oggi un generale dei draghi. Invece era stato il sangue di lei a maledire il medaglione, che, per un puro scherzo del destino, era finito infine nelle sue mani. Kail lo guardò come fosse la prima volta e sua madre sembrò seguire il corso dei suoi pensieri.
“Quel medaglione non ti appartiene, figlio. Ridammelo e me ne andrò senza incalzarti oltre…”
Kail fu tentato di uscire da quella situazione in quel modo: alla fine non sapeva nulla di quell’oscuro artefatto, se non ricordargli l’amarezza di esser appartenuto alla sua malvagia madre. Eppure c’era qualcosa dentro di sé che non voleva privarsene e non riusciva a capire il perché.
“Questo medaglione l’ha raccolto da terra mio padre, quando tu scappasti attraverso il bosco. Egli lo diede ad Astarte, il quale poi lo passò a me. Se fosse stato così importante per te, l’avresti recuperato, prima di fuggire via…”
Replicò calmo Kail, ripetendo meticolosamente le frasi che aveva scelto minuziosamente per tanti anni, se lei gli avesse un giorno posto una domanda del genere. Eyne, reagendo a quelle aspre parole, tirò fuori un coltello dalle pieghe della veste e lo passò sotto la carotide del figlio.
“E se decidessi di sgozzarti e di prendermelo da sola, dopo che sei diventato cadavere?”
Il mezzelfo tentennò. Sapeva benissimo che sua madre avrebbe potuto farlo. Ci aveva provato quando era piccolo, figuriamoci adesso, da adulto. La punta della lama del coltello gli passò sotto tutto l’arco della gola, solcando il filo di barba che ormai era iniziata a crescergli sparuta sul mento.
“Non sei qui per uccidermi, madre. Almeno non con le armi. Sto solo cercando di capire cosa vuoi da me. Anzi, cosa voglio io da te. Perché mai dovrei temerti?”
Domandò Kail, gli occhi duri come l’acciaio fissi nei suoi. Nel suo cuore non desiderava altro che sfilare la sua daga dal fodero e bere il suo sangue, ma sapeva bene che nemmeno lui avrebbe potuto o dovuto ucciderla. Non avrebbe avuto alcun senso. Se avesse voluto uscire da quell’incubo, doveva capire cosa il “Guardiano” voleva sfruttare di ciò che lui evidentemente aveva paura di sua madre: qualcosa di abbastanza potente da distruggerlo dall’interno e lasciarlo vagare e morire nel labirinto.
Kail cercava una fonte d’ispirazione in quegli occhi magnetici, ma ancora una volta non vi lesse nulla che davvero potesse spaventarlo. Quell’elfa, arrogante e malevola che gli stava davanti, era chiaramente un cliché: rappresentava solamente tutto l’odio che aveva accumulato nei suoi confronti, in quasi cinquant’anni di silenzi, di rimuginamenti continui sulla sua tragica storia. Una storia che lo aveva visto bambino, sull’altare del sacrificio di una dea oscura, della quale sua madre era la più fervida delle adoratrici. Quale perversione poteva esserci più grande, di un’elfa, esponente di una razza creata direttamente da Paladine e quindi una vera creatura di luce, disposta a sacrificare la vita del proprio figlio come dono per Takhisis, dea dell’oscurità? Gli elfi amavano e rispettavano la vita, in ogni sua forma e più di qualunque altra razza su Krynn. Sua madre, proprio sua madre, aveva invece scelto di ucciderlo soltanto per ottenere maggiore potere per sé stessa. Non poteva nemmeno pensarci, per quanto disgusto gli creava questa crudele realtà.
Kail provò a notare se ci fossero dei dettagli in lei che gli erano sfuggiti, ma riusciva a scorgere solo l’odio nei suoi occhi verdi, l’arroganza nei suoi atteggiamenti e il disprezzo nel tono della sua voce, oltre che una determinazione ed ambizione sfrenate.
Tutto qui.
Quella era una persona che poteva solo detestare, non temere: adesso ne era ancora più certo di prima.
Doveva quindi cambiare punto di vista, smettere di concentrarsi su ciò che gli avevano raccontato di lei, avere una visione più ampia. Tuttavia non era facile dissociarsi dalle terribili storie sul suo conto. Storie con cui era cresciuto, storie ormai cristallizzate nella sua mente e nel suo cuore in quasi cinquant’anni di vita: quelle storie avevano influenzato tutta la sua esistenza. Facevano parte ormai del suo passato! Introdurre il dubbio oggi, era complicato oltre che pericoloso. Si stropicciò gli occhi, sforzandosi di tenere la mente sgombra e libera per nuove riflessioni. Cercò dunque di rielaborare la situazione da una nuova prospettiva e quando lo fece, un brivido di puro terrore lo scosse dal profondo!
E se le cose non stavano così? E se Astarte si fosse sbagliato o i racconti su sua madre non corrispondessero alla verità o perlomeno non fossero stati così netti, tagliati con un coltello? E se lui avesse potuto perdonarla o peggio se lei fosse stata la vittima?
Adesso si che era terrorizzato.
L’elfa cambiò espressione e disse:
“Finalmente l’hai tirato fuori figlio mio. Già, è proprio questo il punto. E se io ti dicessi che molte storie su di me non rispondono a verità? Che in realtà non ho mai provato ad ucciderti o a sacrificarti alla dea che servo? Non dirmi che non avevi mai pensato a questa eventualità? Ti sei fidato ciecamente di ciò che ti ha raccontato… nemmeno tuo padre… ma un suo amico, che tra l’altro ha sempre osteggiato il legame tra me e lui. Una persona di cui indubbiamente ti fidi, che ti ha cresciuto, ma che forse non ti ha detto tutta la verità. Magari proprio per proteggerti da essa.”
Kail faticò immensamente a riprendere il controllo delle sue emozioni. Era sempre vissuto alla giornata, spostandosi di continuo e prendendo dalla vita il meglio che riusciva ad avere. Poi era arrivata Estellen e lui si era sentito finalmente importante: poteva mettere i suoi talenti al servizio di un valore sacro ed inviolabile, poteva finalmente riscattare il buon nome della sua famiglia, ormai caduta in disgrazia da molti anni. Non aveva mai avuto altri punti fermi oltre a questo e all’odio che provava per quell’elfa. Per la prima volta invece, dentro quel maledetto labirinto, era riuscito ad ipotizzare un’altra versione dei fatti.
“Perché dovrei credere a te, un chierico di Takhisis, invece che a un cavaliere di Solamnia, che mi ha cresciuto come un figlio e il cui onore è conosciuto in tutto il territorio?”
Domandò il mezzelfo, logorato dall’interno.
“Non ti sto chiedendo di farlo. Ti sto offrendo l’opportunità di partecipare ad uno scenario diverso. Uno scenario in cui io, un chierico di Takhisis, tra i primi risvegliati, ho attraversato il territorio degli Uth Mehdi con la mia scorta per una sacra missione e sono stata rapita e tenuta segregata per anni, perché tuo padre si era invaghito di me. Cosa avrei dovuto fare secondo te? Sono stata al gioco, ho fatto credere che avevo ceduto alle avances di quell’uomo, per avere una possibilità un giorno di fuggire via dal carcere in cui ero stata imprigionata. E quel giorno è arrivato poco dopo che sei nato tu. Ti ho portato via con me, ma non per sacrificarti alla mia dea, ma perché non volevo lasciarti in un luogo in cui non ti saresti mai integrato, un posto in cui tutti ti avrebbero visto come il figlio bastardo di un solamnico senza onore e una miserabile elfa rinnegata. Tuo padre mi ha infine scoperta, mi ha raggiunta e quando non ho voluto restituirti a lui, mi ha ferita qui, al fianco. Se avesse voluto uccidermi l’avrebbe fatto e invece mi ha lasciata fuggire via. Forse la sua coscienza non era così limpida come ti è stato riferito, non credi?”
Kail non rispose, il suo corpo era rigido come quello di un cadavere. Guardò sua madre, ma non abbassò troppo la guardia. Notò il pugnale che lei stringeva ancora in mano. Quindi le disse:
“Dovrei credere a questa storia quando tu stringi ancora un pugnale nella mano?”
Eyne sorrise e disse:
“Il pugnale non è per me, ma per te. Tieni, prendilo. Dalla decisione che prenderai, dipenderà la tua vita… o la mia”.
L’elfa gli porse il coltello e lui per la prima volta in vita sua non era sicuro di volerlo usare su di lei.
Decise di non prenderlo, così sua madre, la terribile Eyne Londelle, la dama oscura degli elfi di Silvanesti, rimise nelle pieghe della veste il decorato pugnale, si voltò senza aggiungere altro e sparì tra le ombre del corridoio.
Kail rimase da solo con i suoi pensieri, finalmente libero dai confini dell’immagine che si era fatto di sua madre. Adesso sapeva che solo se l’avesse incontrata faccia a faccia, tenendo la mente sgombra dai pregiudizi, avrebbe capito dove risiedeva il fulcro della verità. Per la prima volta in vita sua si sentì pronto, come un foglio bianco, ad un confronto senza contaminazioni con lei. Le avrebbe dato dunque il beneficio del dubbio: era l’unico modo per non perdere molto più che la propria vita, per non perdere la propria anima!
Si svegliò come in un sogno strano e complesso, di cui non ricordava tutti i particolari e vide Stuard ed Estellen abbracciati in un gesto affettuoso e seppe che purtroppo lui non poteva permettersi quel tipo di esternazioni emotive. Quel coinvolgimento così puro, quel legame cristallino con chi si amava, gli era stato portato via durante una notte di quarantasei anni prima da entrambi i suoi genitori.
Una notte di sangue e violenza.