Escol si avvicinò a Marius un po’ corrucciato. Aveva il volto scuro, la mascella serrata e i nervi tesi come funi d’acciaio. Non perché l’imperiale gli avesse negato il posto al suo tavolo o l’avesse guardato in maniera ostile, ma perché da qualche giorno il figlio del Duca aveva un brutto, bruttissimo presentimento. I segnali che aveva percepito lungo la strada, dalle Terre Misteriose a Silvale, non l’avevano affatto messo di buon umore. Troppa calma, troppo silenzio, troppi pochi soldati in giro. Escol si accomodò innanzi a lui e Marius fu lesto a chiedere all’oste una pinta di birra per entrambi. I due si scambiarono brevi convenevoli iniziali, poi l’ufficiale entrò subito nelle questioni che riguardavano i loro affari. Innanzitutto domandò come fosse andato il suo viaggio ad est e se, visto che adesso era di nuovo disponibile, avesse valutato l’offerta che gli aveva fatto il mese precedente di fungere da sua scorta personale per il suo prossimo viaggio di lavoro. Esso li avrebbe condotti fin sopra Laudaksey, la capitale dell’impero. “Questioni diplomatiche” aveva solo commentato sbrigativamente a riguardo. Escol ci aveva pensato seriamente, poiché era molto curioso di scoprire la sorte che era capitata ad Astarte, che stanziava da sempre in quei territori, ma quando aveva chiesto a Marius se conoscesse il perché di questo strano e tetro “silenzio” che aveva riscontrato lungo le vie imperiali, la sua curiosità sul grande generale svanì all’istante. Dopo un lungo sorso di birra infatti, l’ufficiale aveva commentato laconicamente che il motivo era strettamente correlato al fatto che l’Enclave degli Elfi era infine caduta! La Settima Legione era arrivata sul posto come un ciclone circa due settimane prima e aveva preso la cittadella in appena tre giorni. Escol sgranò gli occhi. L’Enclave degli Elfi caduta? In così breve tempo? Come poteva essere possibile? Anni di assedio e poi bastava così poco per consegnarla così facilmente ai piedi di Arios? Marius strinse le spalle. Pur essendo un imperiale, anche di alto rango vista la sua età e i fregi dorati che adornavano la sua uniforme, sembrava che non ne fosse contento. Eppure era tutto vero. Aggiunse che la forza e la ferocia della Settima Legione era ben conosciuta a tutti e che non era affatto sorpreso che avesse distrutto le già miti difese dell’Enclave in pochissime ore. Questo confermò i sospetti di Escol a proposito dell’albero sacro presente nella Cittadella degli elfi. Quello era l’unico, vero motivo, che giustificasse i decenni di inutile assedio da parte di Arios alla roccaforte: egli non aveva mai desiderato davvero che l’Enclave cadesse, perché temeva di perdere il controllo sulla magia che l’albero avrebbe potuto garantirgli una volta che l’avesse corrotto. L’ufficiale continuava a parlare, ma Escol non era già più lì con lui. Quando passò dalle considerazioni politiche e tattiche a quelle umane ed emotive, strinse i pugni fino a sbiancare le nocche. Dettaglio che Marius, ovviamente, notò bene. Nonostante i suoi crucci, il figlio del Duca non poteva farci niente: Keira, Liss, Wizimir, i suoi amici e la sua famiglia, si erano trovati laggiù durante l’attacco e adesso potevano essere morti perché lui non li aveva difesi. Non li aveva protetti. Quasi a volerlo rincuorare, Marius aggiunse che non tutti quelli che abitavano l’Avamposto Elfico erano stati trucidati. In molti erano riusciti a fuggire, altri erano stati fatti prigionieri. Escol abbassò lo sguardo, poi lo destò fieramente. Si alzò, lo ringraziò per quelle preziose informazioni e si allontanò, ignorando educatamente l’avvertimento del Tribuno Imperiale che gli aveva sconsigliato vivamente di avvicinarsi troppo alla roccaforte caduta. Non perché ci fossero particolari pericoli, ma perché immaginava che le sue azioni l’avrebbero portato a mettersi nei guai a causa di ciò che avrebbe o non avrebbe trovato all'interno. Nonostante Escol fosse stato molto evasivo circa i suoi intenti, l’ufficiale dimostrò una grande sagacia ed intelligenza nell’aver intuito le sue mire. “In altre circostanze avremmo potuto essere amici…” Pensò tra sé il giovane guerriero. Marius alzò il boccale per salutarlo, accomiatandosi da lui utilizzando un antico motto Nordhmenn: “Onore a te, e fierezza nel tuo cuore!”. Aveva esclamato con sincero trasporto, per poi tornare ai suoi affari lasciando Escol ai suoi tormenti. Di nuovo al suo tavolo, i suoi amici gli avevano chiesto di cosa avesse parlato con l’imperiale e perché fosse tornato così cupo e sfiduciato. Quando gli aveva raccontato le disgrazie capitate all'Avamposto Elfico, Slanter quasi aveva perso il senno. Tutta la sua famiglia era lì e il nano aveva rischiato davvero di far saltare la loro già tenue copertura lasciandosi andare a disperazione e rabbia. Escol comandò di rimanere più freddi possibile: anche lui aveva lasciato persone care nella roccaforte, ma dovevano sforzarsi di rimanere lucidi e trovare le giuste cose da fare nella corretta sequenza in cui farle o questa volta ci avrebbero rimesso le penne di sicuro. Pertanto tutti si ritirarono nelle loro stanze e l'indomani mattina, all’alba, ripresero il cammino. Slanter si era chiuso in un bieco silenzio, mentre Vanyl aveva confermato ad Escol le parole di Marius: la sua magia Asura, infatti, le aveva rivelato chiaramente che non c’erano pattuglie di legionari né coscritti che praticavano rastrellamenti intorno alla Cittadella degli elfi. Il suo occhio incantato, agile e silenzioso, le aveva mostrato un panorama abbastanza tranquillo lì intorno. Ed in effetti, lo scenario che si aprì innanzi a loro quando arrivarono a destinazione aveva quasi del surreale. Le legioni schierate ad interim sotto le mura dell’Avamposto erano praticamente sparite, ed esso adesso appariva come un tetro e silenzioso cimitero abbandonato. Vuoto, spento, privo di vita. Il nano guidava la compagnia come un invasato, talmente l’angoscia gli stava rosicchiando il cervello. Persino Escol, abituato a mille andature forzate, era quasi sfinito per i ritmi di marcia serrati imposti da Slanter. Il carro aggirò la collina praticamente indisturbato, raggiungendo infine la grotta del passaggio magico entro sera. Tuttavia, la parete nella caverna non sembrava più rispondere alle sollecitazione di Vanyl. Il condotto mistico pareva svanito, spezzato! L’Asur chiarì in pochi istanti e qualche secondo di raccoglimento dopo il triste mistero: l’incantesimo esisteva ancora da questa parte del muro, ma era dall’altra parte che era stato interrotto. Probabilmente perché non c’era stato nessuno che l’avesse più tenuto in vita. Le parole dell’Asur arrivarono al cuore di Escol e Slanter come tanti coltelli affilati. Poi il nano increspò le folte sopracciglie e disse: “Io entrerò lo stesso lì dentro. Anche dalla porta principale se necessario! Se volete venire con me bene, altrimenti capirò se deciderete di rimanere indietro.” Escol gli mise la mano sulla spalla ed annuì, rassicurandolo che nessuno aveva intenzione di lasciarlo andare da solo o di tornare nelle Terre Selvagge senza prima indagare sulla sorte dei propri cari. Il nano sembrò rincuorato dalle sue parole. A parte Hilda e Kail, che rimasero vicino al carro in attesa, Escol, Slanter e Vanyl scesero dunque a valle intenzionati a prendere il nano alla lettera. L’Asur ebbe perlomeno l’accortezza di indossare la maschera incantata di Alarien e di camuffare i suoi due compagni in due agguerriti legionari imperiali. In questo modo riuscirono a raggiungere l’entrata ad est della roccaforte con grande facilità: nessuno, a parte un pugno di guardie, nemmeno fece caso a loro, per cui la profezia del nano si avverò per intero: varcarono una delle porte della cittadella direttamente, senza utilizzare la forza o particolari cautele di sorta. Non c’erano cadaveri in giro, segno che i legionari avevano già ripulito e bruciato i corpi dei caduti. Escol faceva da guida e trascinò i suoi due compagni per prima cosa a casa di Keira. Quando notò che era stata completamente devastata da armi e magie, i mobili distrutti e le pareti incrinate, il cuore gli si fermò nel petto. Slanter dovette scuoterlo per un braccio per farlo riprendere dall’angoscia e dalla pena. Escol setacciò ogni stanza, ma non c’era più nessuno in casa! L’ansia esplose nella sua mente come un tuono improvviso. Ad un certo punto dovette sedersi per non cedere ad un attacco di panico. Respirando lentamente e sempre più a fondo, si costrinse a pensare lucidamente. Se conosceva bene Keira, era impossibile che non avesse lasciato qualcosa per lui. Un messaggio, un segno di ciò che stava per capitare a lei e a Liss. Foss’anche una lettera d’addio. Si voltò e notò il piccolo baule di fianco alla cucina, quello che un tempo aveva custodito l’armatura e la spada della nobile Nordhmenn. Si alzò e lesto lo aprì. Dentro c’erano mille cianfrusaglie già rovistate da mani ignote, ma anche una pergamena aperta che gli parve subito strana. Per i saccheggiatori essa era un inutile pezzo di carta, scarabocchiato e senza valore, ma per lui (e anche per Slanter) rappresentava invece la speranza che i propri cari potessero essersi salvati! Essa infatti mostrava una singola runa nanica, che poteva passare anche per il disegno fantasioso di una bambina, ma che lui capì subito essere in realtà il messaggio che cercava. La runa, che Slanter tradusse immediatamente, rappresentava la casata Nordhmenn degli Agdekson! La casata di Keira. Quindi Keira e Liss si trovavano ora insieme ai nani, probabilmente in salvo nelle Terre Selvagge. Slanter aveva le lacrime agli occhi. Poi afferrò di nuovo il braccio di Escol, domandandogli se potevano recarsi adesso presso casa sua. Dovevano assolutamente trovare conferme di quanto avessero intuito qui. Ovviamente il figlio del Duca annuì. E così i tre compagni uscirono dalla casa di Keira, arrivando in pochi minuti a quella del nano. Slanter fece irruzione in casa sua come un orso in una foresta! Aveva l’ascia tra le mani, anche se non c’era alcun nemico da affrontare. Anzi, non c’era nessuno per le strade dell’intero quartiere dei nani. All'interno dell’abitazione rinvennero uno scenario del tutto diverso dal precedente. Oltre a notare la stessa runa, disegnata su un foglio e messa in bella mostra su una credenza all’entrata, i tre compagni si resero subito conto che nessuno aveva combattuto qui. Questo lasciò intendere che la famiglia del nano e probabilmente quasi tutti i nani che non erano dei combattenti, erano stati i primi ad essere trasferiti tramite la magia degli elfi nelle Terre Selvagge. Slanter proruppe in un grido di gioia quando, confabulando con i suoi amici, arrivarono insieme a queste conclusioni. Poi Vanyl suggerì ad Escol di controllare cosa fosse successo all’albero sacro degli elfi: era una cosa fondamentale da capire, perché se Arios era riuscito a corrompere l’albero, Eord sarebbe presto sprofondato senza speranza dentro la sua terribile e crudele morsa. Tuttavia il figlio del Duca aveva prima un’altra tappa da fare: il Tempio dei Paradine e la scuola di Magia! Trovarono il Tempio vuoto, con il corpo del Fondatore e soprattutto Enwel spariti. Così come l’intera scuola dei maghi e il suo amico Wizimir. Escol scorse la gemella della sua pietra scura a forma di clessidra sul tavolo del laboratorio del mago e allora capì perché lo stregone mezzo Asura non gli aveva più risposto. Tentando di camuffare la preoccupazione per la sorte dell’amico, il giovane guerriero donò la pietra nera, magica e levigata, a Vanyl. E fu in quel momento che l’Asur notò qualcosa sulla porta d’entrata della scuola. Un messaggio nascosto dalla magia: un segno, un simbolo incantato. Pronunciando allora alcune brevi parole gutturali, mostrò ciò che prima era celato agli occhi: un’altra runa nanica come le due precedenti! Questo indicava che anche Wizimir aveva preso la via delle Terre Selvagge e della casata Agdekson. A quel punto, un pò più sollevato, Escol accolse il consiglio di Vanyl, recandosi subito ai giardini e all’albero sacro degli elfi. Constatò ciò che già immaginava da tempo: l’albero era morto. Non da solo però: decine e decine di guardie nere giacevano senza vita attorno ad esso, come una macabra aiuola che conteneva all’interno la pianta più bella ed inquietante di un giardino decomposto. Era strano che i loro cadaveri non fossero stati portati via e bruciati insieme agli altri. Adesso l’albero non aveva più il suo aspetto regale e austero: i rami erano secchi, il tronco marcio e le foglie avvizzite. Era certamente triste, ma anch’esso sapeva che sacrificarsi era necessario, piuttosto che cadere nelle mani impure dell’imperatore maledetto. Il più grande timore di Arios si era infine realizzato dunque. L’albero aveva scelto di perire, ed egli non avrebbe più potuto sfruttarne il potere. Eppure Escol aveva avuto modo di conoscere molto bene l’astuzia e l’intelligenza del suo avversario. Aveva imparato a non sottovalutare mai i suoi talenti e il suo ingegno. Se aveva deciso di richiamare la Settima Legione e schiacciare l’Enclave Elfica rischiando di perdere per sempre l’albero sacro, significava che il pericolo che stava correndo in quel momento, se la roccaforte fosse rimasta ancora in piedi, era superiore a ciò che avrebbe perso in termini di potere se l’albero avesse preferito soccombere piuttosto che arrendersi a lui. Il giovane guerriero non riusciva ad immaginare che cosa Arios potesse mai aver temuto così tanto, da spingerlo a rinunciare spontaneamente alla forza magica inesauribile di quella maestosa e regale pianta, che l’avrebbe quasi certamente reso invincibile. A meno che la questione fosse più sottile. Più subdola. D’istinto tirò fuori dal sacchetto il seme d’oro che l’albero gli aveva donato e che lui stava custodendo come una reliquia. Si domandò se quell’essere maledetto e dalle mille risorse nascoste, potesse esser venuto a conoscenza di questo meraviglioso regalo che gli era stato fatto. Forse che un dannato mutaforme era riuscito a scoprirlo e gliel’aveva riferito? A quel punto si che l’Enclave Elfica e l’albero sacro avrebbero perso di significato. A quel punto sì che sarebbe valsa la pena distruggerli una volta e per tutte. Perché esisteva ancora un seme di quell’albero, ed era in mano sua! E gli occhi di Arios, già fissi su di lui da tempo, si sarebbero limitati a seguirlo ancor più da presso, attendendo il momento giusto per realizzare in un sol colpo ciò che più desiderava in tutta la sua tenebrosa vita: ucciderlo finalmente e rubargli ciò che così tanto agognava. Purtroppo però, nessuno, tranne Arios stesso e i mesi successivi che si sarebbero susseguiti, avrebbero potuto confermare o smentire la fondatezza di questa più sofisticata spiegazione. Sospirando, il gruppo si riunì infine a Hilda e Kail. Slanter si mise subito alla testa del carro, raggiungendo velocemente la porta Occidentale. Da lì avrebbero potuto deviare verso nord e iniziare il loro viaggio per le Terre Selvagge. Il nano riscontrò immediatamente che sul terreno vi erano numerose tracce, come una specie di esodo di massa. Segno che molti sopravvissuti non erano riusciti a sfruttare la magia elfica per fuggire e adesso lo stavano facendo alla vecchia maniera. La compagnia risalì il sentiero per diverse ore di cammino, finché si trovò immersa in uno scenario orrendo. Un massacro di elfi, tra cui Volker, riempiva un’intera radura! Quasi cinquanta spade erano state trucidate dagli inseguitori della Settima Legione, ma almeno il comandante dell’Enclave e i suoi coraggiosi elfi, avevano permesso ai fuggitivi di proseguire il loro viaggio verso la salvezza. Escol ordinò di fermarsi e dare degna sepoltura a quei corpi: guerrieri così valorosi non sarebbero diventati cibo per i corvi. Dopo aver officiato questo macabro compito e speso una preghiera per quelle anime temerarie e valorose, Slanter fece notare che da quel punto in poi i profughi avevano preso una direzione che li stava conducendo ad una piccola foresta a nord - est. Quindi loro per seguirli avrebbero dovuto compiere una deviazione sostanziale rispetto al sentiero. Ovviamente Escol diede l’ordine di raggiungere gli esuli e dunque, verso sera, la compagnia si trovò ai confini del bosco. Prima di entrare nella fitta e buia macchia di alberi, alcuni elfi spuntarono dal nulla armati di archi e frecce, intimando l’alt e ordinando di mostrare i loro volti e dichiarare le loro intenzioni. Escol si presentò senza timore e così fecero i suoi amici. A quel punto gli elfi abbassarono le armi, scortando gli avventurieri all’interno del loro campo. Quasi cinquecento anime erano accampate tutte insieme in un’ampia radura. Elfi, nani ed umani, che si davano da fare per cucinare, accendere fuochi, consolare i bambini e controllare i confini della foresta. Escol iniziò a fare domande, ma l’elfo lo invitò a seguirlo, poiché l’avrebbe portato a parlare direttamente con il comandante della comunità. Enorme fu lo stupore del giovane guerriero quando scoprì che il condottiero di queste persone, stanche, affamate e disperate era proprio Keira! La donna gli saltò al collo e lui, d’istinto, la baciò. Non fu un bacio rubato, dato dal sollievo di averla ritrovata o dal troppo entusiasmo di poterla riabbracciare dopo aver temuto così tanto per la sua vita. Fu un bacio d’amore. Keira ricambiò, dopo appena un attimo di incertezza. Quando Escol la guardò, la donna gli si strinse contro, dicendogli che non sperava più di rivederlo. Che ora che stava di nuovo con lei, ogni cosa nel suo cuore si riempiva di speranza. Poi però alcune lacrime iniziarono a velarle gli occhi verdi, duri e fissi su di lui come granito. Escol domandò il perché di quel pianto triste e soffuso e Keira gli rivelò singhiozzando che, durante l’ultimo assalto, Liss era stata rapita! Escol si allontanò da lei di un paio di passi, gli occhi sgranati, i pugni serrati. Subito richiamò a sé Vanyl e disse a Keira di proseguire il giorno dopo con i profughi verso casa. Le affidò, dopo aver fatto le dovute presentazioni, la sua famiglia: Hilda e Kail. Keira guardò lui ed il bambino un pò perplessa, ritenendo Kail, come avevano fatto tutti, un pò troppo grande per essere suo figlio. Slanter si affrettò a commentare che le avrebbe presto spiegato tutto. Escol annuì, poi però sentenziò che solo lui e l’Asur avrebbero seguito le tracce di Liss: tutti gli altri avrebbero dovuto proseguire verso le Terre Selvagge. Keira obiettò che Liss era sua figlia, che voleva andare con lui (così come fece Slanter), ma Escol le fece notare tutta quella gente che si era aggrappata a lei, al suo coraggio, alla sua guida, alla sua determinazione. Non poteva andarsene ora: quelle persone, che la guardavano con occhi pieni di speranza, contavano su di lei. Al nano invece si limitò a dire che c’era più bisogno di lui qui: seguire le tracce di una legione imperiale non sarebbe stato un compito difficile, mentre trovare la via migliore e più sicura per cinquecento anime in fuga lo era eccome. Solo lui poteva riuscirci. No, si sarebbero occupati lui e Vanyl di riportare indietro la piccola Liss. Quindi si voltò e fece per tornare ai cavalli, ma Keira lo cinse per un braccio, lo girò e lo strinse a sé. Poi si tirò su in punta di piedi, gli mise appena le mani guantate sulle guance e lo baciò teneramente, mostrando che quei sentimenti che lui le aveva apertamente mostrato poco prima, erano condivisi. Lui la accarezzò dolcemente e le disse di non temere, perché sarebbero tornati tutti e tre sani e salvi. Quindi, insieme all’Asur salirono sui loro puledri e iniziarono a cavalcare follemente a ritroso fino al punto dell’imboscata e poi a sud - est verso la città di Rautar. Escol si rese conto che, al ritmo con cui stavano correndo, i destrieri sarebbero morti entro qualche ora e giungere a Rautar per prenderne altri era l’unica possibilità che avevano di recuperare la distanza che li divideva dagli imperiali. Ora la sua stessa vita e quella di Liss dipendevano interamente da quanto fossero riusciti ad essere solerti: se Arios avesse messo le mani su di lei infatti, avrebbe avuto anche il controllo su di lui. Questo Escol lo sapeva molto bene: era stato il Nexus ad insegnarglielo!