Escol si avvicinò all’altare ove la spada era adagiata con una sorta di riverenza e religioso silenzio. Dal punto di vista di molti su Eord quella lama era un’arma sacrilega, poiché aveva ucciso una creatura divina per i mortali: un Paradine! Eppure il giovane guerriero non poteva non guardarla con un misto di ossequiosa meraviglia ed un pizzico di timore latente. La temeva, ma ne era anche affascinato. Sembrava riflettere la sua natura ambigua: una natura che era basata sulla luce, ma che era altresì attratta dal buio. Altrimenti come potevano spiegarsi le sue dubbie amicizie? Inoltre, se ancora esisteva una speranza di uccidere l’imperatore maledetto era grazie a quella spada. E se doveva usare qualcosa di malvagio per combattere un’altra cosa malvagia, allora l’avrebbe fatto. Non sarebbe stata nemmeno la prima volta. Pensò agli Elfi Scuri, ad Atreus e adesso agli Wraith. Si fermò ritto davanti ad essa, iniziando ad osservarla meglio. Era biancastra, ma aveva un’anima rossa che le camminava dentro, muovendosi come fosse viva. Prima che potesse levare la mano verso di essa ed afferrarla, la voce di Eor spezzò il silenzio facendolo sobbalzare. Hilda, che era al suo fianco, indietreggiò insieme a lui. “Alcuni esseri sono realmente immortali, giovane Escol di Berge. Intendo dire… intendo dire che il mio popolo… o i Vanyr… beh, noi non invecchiamo, non ci ammaliamo come fate voi, ma comunque possiamo essere uccisi…” Esordì il fratello del Re, ora seduto sul suo alto scranno. Fece una pausa intensa, poi continuò. Sembrava incerto, impacciato. Insicuro nel voler condividere quelle informazioni. “Alcuni esseri, invece… alcuni esseri… appartengono alla Trama stessa dell’Universo. Essi possono essere imprigionati… banditi o esiliati… ma finché esisterà la Creazione, esisteranno anche loro…” Terminò Eor, spostando lo sguardo da Escol alla spada. “Come ti ho detto, non ti negherò l’ausilio di quell’arma, se “Lei” deciderà di seguirti. Ma sappi questo, Escol di Berge: nessun artigiano, nemmeno il più grande… nemmeno io… sono in grado di rendere senziente l’acciaio!" Detto questo, il Wraith tornò a guardare il figlio del Duca, che, corrucciando la fronte, iniziò a comprendere cosa Eor stesse cercando di dirgli. Tuttavia, c’era un solo modo per scoprire se fosse sulla strada giusta. Tornò a guardare fisso la spada, avanzò di due passi e ne afferrò l’elsa con mano pronta, decisa. Il potere puro iniziò a scorrergli lungo il braccio: una sensazione appagante ed estatica! Fu un’esperienza talmente intensa, che in quel momento pensò di poter affrontare e sconfiggere qualunque avversario gli si fosse parato davanti. Persino Arios stesso!. Poi la sensazione si quietò, la macchia rossa iniziò ad espandersi lungo il cuore della lama, e lui udì una voce roboante nella sua mente che lo scosse da capo a piedi come un fuscello. “Io sono il Primo. Io Sono il Terzo di Tre. Nato per essere Il Portatore di Luce. Il mio nome è stato dimenticato. Pronuncia il mio nome.” Escol immaginava una cosa del genere, per questo riuscì a rimanere freddo e a riflettere a fondo su quelle parole. Ciò che era un semplice sospetto adesso divenne conferma: a parlare era stato proprio il Paradine “ucciso” dal sire degli Wraith millenni prima: durante la guerra tra Wraith, Paradine e Vanyr! Essendo davvero immortale, come sosteneva Eor, il suo spirito si era rintanato nella spada che l’aveva colpito. I suoi due fratelli gemelli, Cardras e Maedras, componevano la sua famiglia e lui doveva essere l’ultimo dei tre. Nessun mortale conosceva il suo nome, ma ora aveva un indizio da cui partire. Forse il suo retaggio Nordhmenn l’avrebbe aiutato questa volta. La lingua dei Nordhmenn infatti, si basava sull’antico idioma che i Paradine usarono per rivolgersi ai primi uomini civilizzati su Eord. Magari non era la strada giusta, ma “colui che portava la luce” in lingua Nordhmenn si diceva: Heredros. Il nome venne fuori dalle labbra di Escol in maniera naturale, come il vento fresco al mattino o la luce soffusa al tramonto. Aveva chiuso gli occhi quando aveva pronunciato quelle due parole e quando li aveva aperti, la lama era diventata completamente rossa: una vera Spada di Sangue! Eor annuì sul suo scranno, mentre Hilda lo chiamò da tergo. “Escol? Cosa mi sta succedendo?” Il suo corpo si stava facendo traslucido, evanescente. Il figlio del Duca notò che la stessa cosa stava capitando anche a lui. Intuì allora che se ne stava andando dal Nexus, che aveva svolto la sua funzione laggiù e che qualcuno lo stava riportando indietro. “Ricorda il tuo patto, Nordhmen!” Disse Eor, alzandosi piano dal suo scranno. “Lo farò, mio signore… ma tu, per favore, occupati di mio figlio!” Eor sorrise e aggiunse: “Tuo figlio verrà con te. Il potere che ti sta portando via, sta trascinando anche lui insieme a voi.” Escol lo guardò, sollevato. Poi lo salutò, come si salutano tra i Nordhmenn i più grandi tra i generali, afferrò appena la mano di Hilda e insieme a lei, scomparve. Si ritrovarono un attimo dopo tutti e tre nella sala principale del Tempio di Sire Fuoco! Una voce potente e preoccupata spezzò l’aria intorno a loro: “Ma cosa è successo? In un istante, il fuoco è svanito, i Wraith che ci seguivano sono scomparsi e adesso vedo che hai altre due persone con te. Puoi spiegarmi?” Slanter aveva messo le braccia a brocca e tamburellava con un piede sul pavimento: aveva l’aria di chi esigeva subito delle spiegazioni. Escol invece non riuscì a far altro che sollevarlo ed abbracciarlo con tutta la forza che aveva. Poi, dopo le numerose rimostranze del nano, non incline a quei gesti d’affetto, lo rimise a terra e iniziò a spiegargli tutto. Dove era finito, come nel Nexus il tempo passasse in maniera diversa e soprattutto presentandogli Kail, suo figlio e Hilda, madre di Kail. Il nano guardò il piccolo assai perplesso, incapace di capire come poteva essere possibile che quel bambino fosse davvero suo figlio: era troppo grande! Escol sorrise comprensivo, spiegando che mentre per loro era passato poco più di un anno dallo scontro con Arios, per Hilda e Kail ne erano passati otto nella prigione degli Wraith! Slanter non era certo di aver capito tutto, ma quando Escol gli mostrò la Spada di Sangue e gli spiegò cosa fosse e quale potere nascondesse dentro di sé, la fronte perennemente corrucciata del nano conobbe per un istante un pò di pace e di speranza. Tuttavia, fu quando gli parlò dell’accordo che aveva fatto con i Wraith, che Escol ebbe ancor di più una spinta feroce a percorrere l’impervia strada che l’avrebbe portato dai Valoarian! Quando vide Valyn spuntare dalle ombre del Tempio, facendo sussultare il nano, fu talmente grande la felicità che provò, che pensò che non sarebbe stato affatto impossibile raggiungere quelle terre lontane e trovare un Vanyr disposto ad ascoltarlo. Escol sollevò e stritolò anche l’Asur, che rimase congelata per l’imbarazzo. I due si raccontarono l’un l’altro ciò che era successo loro ultimamente, ma la cosa importante fu che si erano ritrovati ed erano di nuovo insieme. Valyn era riuscita ad arrangiare un patto con gli instabili Wraith di Eord, ottenendo alla fine il loro lasciapassare per attraversare le Terre Misteriose. Escol aggiunse che non si stupiva affatto che ci fosse riuscita, visto l’accordo che esisteva tra lui e il Sire degli Wraith del Nexus. Le domandò se voleva seguirlo ancora, nonostante lei avesse già ottemperato alla sua missione e ovviamente l’Asur accettò di buon grado. Quindi decisero di muoversi. Slanter andava per primo, seguito da Valyn, Escol, Kail e Hilda. Discesero la scalinata lungo il costone della montagna, fermandosi solo per un attimo al tempietto ove si era consumato lo scontro tra il Jaychira ed il generale Stee. L’ambiente era devastato, la pietra incrinata, le pareti fracassate in vari punti. Gli effetti del loro combattimento risultavano evidenti senza neanche dover entrare all’interno del piccolo tempio. Eppure fu quando varcarono la soglia che restarono senza parole. Il corpo fumante del mostro giaceva da una parte, iniziando già a corrompersi come una candela alla luce della sua fiamma. Su una roccia invece, giaceva il corpo spezzato e ricoperto di sangue e veleno del generale Stee. Escol abbassò gli occhi tristemente. Raccolse le spade del mezzelfo e le mise nello zaino. Poi si avvicinò a lui, quasi a volergli dare l’estremo saluto. Ma Stee non era morto! Non ancora almeno. Lo sguardo di Escol si accese di speranza, ma quando lo tirò su alzandogli leggermente la testa, capì che il maestro d’armi non aveva scampo. Era stato ferito troppe volte e non esisteva cura al veleno del Jaychira. Ogni respiro era un rantolo e doveva causargli un’agonia indicibile, eppure trovò la forza di aprire gli occhi e guardarlo. “Lui… lui…è … morto?” Sussurrò appena. Escol dovette avvicinare l’orecchio alle sue labbra insanguinate per poter udire le sue parole. Guardò la bestia, poi si girò verso di lui ed annuì tristemente. Non c’era soddisfazione negli occhi del giovane guerriero, solo dolore. “Allora… allora… nemmeno lui mi è sopravvissuto…” Stee sputò sangue sorridendo. La sua era una risata amara, sofferente. Escol provò a confortarlo, ma il mezzelfo allungò una mano tremante alla sua fronte e la bagnò con il proprio sangue. “Ecco… ora passo a te la benedizione dei maestri d’arme. Rendimi fiero, giovane guerriero!” Il figlio del Duca aveva le lacrime agli occhi, ma non cedette alla fierezza di quello sguardo che lo fissava. Poi quando la luce abbandonò gli occhi di Stee, si lasciò andare ad un pianto disperato. “Non lascerò a marcire il suo corpo qui… lo porteremo con noi e gli daremo una sepoltura adeguata…” Mormorò a sé stesso, fingendo di rivolgersi ai compagni. Si pulì gli occhi dalle lacrime e poi se lo caricò in spalla. Nessuno osò avanzare alcuna obiezione e il silenzio accompagnò il gruppo fino a valle. Le prime parole tra Escol e Vanyl si riaccesero nel mezzo della foresta degli Wraith, dove l’Asur accertò che nessuno dei suoi avi avrebbe fatto loro del male. Il passaggio sarebbe stato comodo e indolore. La sera prima di arrivare al confine, Escol era di guardia e si rese conto che qualcuno dei suoi amici non aveva sufficientemente sonno per dormire. Grande fu la sorpresa quando si accorse che si trattava di suo figlio Kail! Il bambino gli si avvicinò, ed iniziò a porgli delle domande. Sull’imperatore, sugli Wraith e soprattutto su ciò che era giusto o sbagliato fare. Colto un pò di sorpresa, Escol come al solito scelse la strada della verità: l'unica che andasse bene in ogni circostanza. Persino con un bambino, a suo parere. Gli parlò della malvagità dell’imperatore e del perché avesse preso la Spada di Sangue. Gli raccontò della profezia e di quanto lui fosse speciale. Se il padre avesse fallito, c’era infatti ancora il figlio a portare speranza su Eord e questa consapevolezza doveva renderlo fiero, ma anche insegnargli il senso di responsabilità nei confronti del mondo. Kail, con la foga che caratterizzava ogni ragazzo, si fece avanti dicendo che avrebbe ucciso lui Arios, ma Escol alzò una mano, spiegandogli che uccidere era sempre sbagliato come primo proposito. Un uomo saggio cercava sempre la via della diplomazia. Purtroppo però non era sempre possibile e spesso bisognava combattere per evitare la sofferenza negli occhi della gente. Kail annuì, mostrando nello sguardo di aver capito. “Un ragazzo intelligente, bene…” Fu l’unico pensiero che sfiorò Escol in quel momento. “Meglio un condottiero intelligente che uno coraggioso.” A dire il vero, sarebbe stato meglio che avesse entrambe le qualità, ma queste cose si sarebbero viste col tempo. Ora era il momento di dormire, ed Escol disse a suo figlio di raggiungere la madre senza chiedere altro. Ovviamente Kail obbedì. Il figlio del Duca lo guardò allontanarsi zompettando. Certo che era assai strano che Hilda avesse chiamato suo figlio, Kail. Sentiva anche qui lo zampino di Atreus. Nelle sue visioni passate, aveva scorto Kail solo due volte: in braccio all’imperatore, un momento prima di essere sgozzato dal pugnale di Cardras e con la Spada di Sangue in mano, pronto a combattere Arios. Forse che la vera profezia non si riferisse a suo fratello, ma a suo figlio? Con questi inquietanti pensieri il guerriero tornò a concentrarsi sul suo turno di guardia. Al mattino la compagnia raggiunse il limitare della foresta e Slanter pretese di andare da solo a controllare se ci fossero ancora pattuglie imperiali nella zona. Due ore dopo tornò scuotendo il capo: era assai strano, ma non c’erano legionari lì attorno. Perplesso ma sollevato, Escol si caricò nuovamente in spalla il cadavere di Stee, avvolto in una coperta e insieme ai suoi amici raggiunse la collina dove circa una settimana prima aveva lasciato il carro con i cavalli. Quel posto era un buon pascolo e riteneva ci fossero ottime possibilità che potessero ritrovarli ancora lì qualche giorno dopo. Infatti, con un po' di fatica e grazie all’abilità del nano, riuscirono a recuperarli tutti. Mentre Hilda e Valyn si occuparono di legarli al carro, Escol scavò una buca sufficientemente ampia per il generale Stee, depositò il corpo all’interno e approntò una rozza e improvvisata targa di pietra ove incise sopra il suo nome. Prima di andare, notò che al dito il mezzelfo teneva ancora l’anello del Lupo: quello che lo caratterizzava come generale della Settima Legione. Tenne con sé anche quello, insieme alle sue armi. Poi, dopo un momento di raccoglimento intenso, partirono alla volta dell’avamposto elfico. La prima piccola cittadella di Hopastoya, servì solo per far rifornimento di cibo e acqua. Ma fu a Silvale che Escol capì che era successo qualcosa. Qualcosa di terribile, che spiegava quell’assenza e quel silenzio incontrati lungo le strade imperiali. Infatti, il gruppo arrivò di sera e fu costretto a prendere delle stanze nella locanda che avevano già visitato giorni prima. E lì, in mezzo a fumo e chiacchiere, Escol notò Marius, che probabilmente stava aspettando solo il momento in cui lui si sarebbe fatto avanti. Momento che arrivò un istante più tardi.