Il carro procedeva sbatacchiando Escol continuamente e lasciandolo in preda ai suoi più cupi pensieri. Il giovane Berge non era preoccupato per il terribile fato a cui sembrava esser destinato, quanto a quello che, a causa sua, poteva esser caduto sulle teste della sua famiglia adottiva. Stava attingendo a tutti gli anni in cui si era addestrato a disciplinare la mente e il corpo per non impazzire, per rimanere ancora calmo e concentrato, ma era davvero difficile. Doveva andar via di lì. Assolutamente. Teneva gli occhi chiusi e gli orecchi ben aperti, per tentare di carpire anche la più fievole delle informazioni utili, ma nessuno gli parlava. Nessuno nemmeno gli si avvicinava. Il cammino proseguì quasi per un giorno e mezzo e l’inquisitrice, a capo del convoglio di legionari che lo stavano trasportando, non diede ordine neanche di liberarlo un attimo per farlo mangiare o per permettergli di soddisfare i suoi bisogni corporali. Giaceva disteso, completamente incatenato e imbavagliato, ed era stato etichettato da lei come un “soggetto estremamente pericoloso”. Pertanto era anche normale che tutti avessero premura di lasciarlo chiuso là dentro fino all’arrivo alla cittadella di Arios. Tuttavia, la sera del secondo giorno, durante la sosta per passare la notte, Escol riuscì a carpire qualche brandello di conversazione tra i soldati e tra l’inquisitrice e un nano, che aveva intravisto durante il viaggio. Dalle loro chiacchiere aveva avuto conferma che la loro mèta fosse proprio il palazzo dell’imperatore e che c’erano decine di inquisitori e di legionari che stavano da mesi battendo tutta la zona per trovarlo. Slanter invece, questo era il nome del nano, aveva avvicinato la strega per chiederle se poteva dare qualcosa da mangiare al prigioniero, poiché Arios aveva ordinato di portarlo da lui vivo, non stremato da dodici giorni di digiuno. Un pò stizzita, l’inquisitrice gli concesse di portargli dell’acqua e un po’ di cibo, ma di non abbassare la guardia nemmeno un secondo, poiché quell’uomo era il peggior criminale dell’impero! Il nano annuì, afferrò una ciotola con della brodaglia non troppo invitante, aprì il carro e si avvicinò cautamente al figlio del Duca. “Se ti tolgo il bavaglio e ti do da mangiare, prometti che farai il bravo?” Disse Slanter titubante. Escol annuì. “Ecco la mia occasione…” Pensò tra sé. Doveva agire in fretta e in silenzio. Stava già riflettendo su quale fosse il modo migliore per uccidere quel nano e liberarsi, quando Slanter aggiunse con un bisbiglio: “Quelle persone, a cui ti accompagnavi, stanno bene. Ho convinto l’inquisitrice a lasciarli andare, ed ora credo siano diretti all’ ”Enclave degli Elfi”, almeno questo credo di aver capito riguardo le loro intenzioni…” Il figlio del Duca lo guardò, poi si lasciò imboccare. Gli domandò se fosse certo che fossero sani e salvi e al sicuro. Il nano annuì. Escol sospirò, come se gli fosse stato tolto un grosso peso dall’anima. Poi ringraziò il nano, ed aggiunse tra i denti che quando si fosse liberato, perché sarebbe successo, avrebbe fatto il possibile affinché lui sopravvivesse alla carneficina. Per sdebitarsi nei suoi confronti. Ancora con il cucchiaio in una mano e la ciotola nell’altra, il nano guardò quel ragazzo e la sua feroce determinazione e non ritenne nemmeno per un secondo che egli stesse bluffando o parlando tanto per parlare. Quindi riprese a dargli il cibo e lo pregò di riposare, poiché non sapeva quando avrebbe potuto nutrirlo di nuovo. Quindi gli rimise il bavaglio ed uscì. Escol poteva finalmente pensare con chiarezza adesso. La sua mente era libera. Chiuse gli occhi e si rilassò, sgombrando i pensieri da agenti contaminanti. Cercò subito Atreus, invocò il suo nome e la sua presenza, ma l’Asur non rispondeva. Sembrava assente, sparito. Questo complicava un po' le cose in effetti, ma il figlio del Duca rimaneva fiducioso di potercela fare lo stesso, anche con le sue sole forze. Doveva solo rimanere calmo ed aspettare la sua chance di agire. Il mattino seguente il carro riprese a viaggiare, finché, all’imbrunire, passò davanti ad un viandante solitario, che stava cenando di fronte ad un piccolo falò. Notando un’inquisitrice e la sua scorta, lasciò da parte il suo arrosto e si affacciò curioso verso la carovana e il suo prigioniero. In buona sostanza commentò ad alta voce che fosse stupito del fatto che dieci legionari e una strega si fossero dati così tanto da fare per mettere i ferri attorno al collo di una sola persona. L’inquisitrice gli intimò di non immischiarsi, ma quell’uomo non sembrava molto propenso a farsi da parte. Anzi, ad un certo punto, sguainò due corte lame splendenti e iniziò a falcidiare i legionari. Uno dopo l’altro. Escol rimase allibito dal suo incredibile modo di combattere. Non esisteva nessuno che si potesse muovere tanto velocemente e ferocemente. Nessuno che non fosse stato aiutato pesantemente dalla magia e anche da qualcos’altro che ancora gli sfuggiva. Quando fece a pezzi un “Elementale della Terra”, evocato dalla incantatrice, ne ebbe ulteriore conferma: le sue armi e la sua armatura erano certamente incantate, ma egli sembrava sapere sempre una frazione di secondo prima come si sarebbe mosso il suo avversario, sia in difesa che in attacco. Questo gli garantiva di colpire e di difendere sempre con successo. Abilità che non potevano donare nemmeno le arti mistiche degli elfi. Dopo due minuti non c’era più nessuno sul campo di battaglia. Slanter infatti aveva ucciso l’ultimo legionario, pugnalandolo alle spalle poco prima che potesse sgozzare Escol, usandolo come scudo umano per salvarsi la vita da quella furia. In questo modo, il nano evitò di esser passato a fil di spada dal guerriero solitario, che però gli ordinò di liberare subito il prigioniero. Finalmente libero dai suoi ceppi, Escol poté ringraziare il suo salvatore, il quale si presentò come Stee Aldor: il leggendario mezzelfo e maestro d’armi! Anche lui, come Astarte, era stato un generale di Arios un tempo, ma anche lui aveva poi girato le spalle all’imperatore maledetto. Escol non credeva ai suoi occhi: era cresciuto con il mito di quell’uomo! Era stato il suo punto di riferimento, la sua costante ispirazione per tutta la sua carriera di uomo d’arme. Quando Escol si presentò a sua volta, il maestro d’armi quasi si inchinò al suo cospetto, asserendo che anche egli era stato per lui una fonte di ispirazione, visto quanto fosse andato vicino ad uccidere l’imperatore tre mesi prima. Tuttavia Escol gli confessò che non erano affatto vere le dicerie che circolavano sul suo conto. Non aveva fatto un bel niente, anzi, attraverso il suo operato, erano morte tante brave persone e alla fine della partita, aveva reso Arios ancor più arrabbiato con il popolo e con le razze soggiogate! In un angolo, Slanter abbassò gli occhi tristemente. Mentre parlava, il figlio del Duca stava recuperando l’equipaggiamento dei caduti, tra cui: un’armatura, una spada, uno scudo e, dallo zaino dell’inquisitrice, “l’Occhio di Arios” e alcune pergamene per evocare elementali dell’aria e della terra. Inoltre sfilò dalle sue tasche insanguinate anche un foglio, scritto dalla mano dell’imperatore, dove dava precise disposizioni agli inquisitori di procedere all’arresto del fuggiasco “Escol Berge” e di portarlo vivo al suo cospetto. La cosa era assai strana dunque: come faceva Arios a sapere che era sopravvissuto? Come era riuscito a trovarlo, seguirlo e poi sedarlo di notte, durante il sonno? Era vero che c’erano parecchi inquisitori sulle sue tracce, ma rimaneva comunque un compito estremamente difficile, vista la vastità dell’impero. Inoltre Atreus pareva svanito nel nulla e la cosa si faceva preoccupante. Quando finalmente Escol si tirò su dai corpi esanimi dei legionari, domandò a Aldor perché l’aveva salvato e se la cosa fosse davvero casuale come lui l’aveva descritta. Il maestro d’armi schioccò le labbra, poi rispose che il salvataggio era davvero stato fortuito: pura volontà dei Paradine! Tuttavia, era anche vero che egli lo stava cercando da mesi, poiché aveva fatto un sogno estremamente vivido e reale, dove proprio lui l’avrebbe condotto finalmente un giorno a combattere “la sfida della sua vita”. Egli ammise con una certa amarezza, che non era sempre semplice essere considerato da chiunque su Eord: “il più forte guerriero tra tutti i guerrieri”. Senza altri paragoni di sorta, sfide praticabili, obiettivi da raggiungere, era diventato impossibile crescere e migliorarsi ancora e la sua vita sarebbe stata troppo lunga da vivere, con questo tipo di limite invalicabile davanti. La possibilità di perdere, di morire in combattimento, doveva sempre esistere nella mente di un guerriero. Escol non era sicuro di aver capito bene il punto di vista di quell’uomo, ma come forma di  cortesia domandò lo stesso di raccontargli il suo strano “sogno”. Esso parlava di una grande scalinata, non quella della “Cittadella” che portava ad Arios, ma un’altra, da qualche altra parte in qualche altro luogo. Poi una nebbia grigia si era addensata all’improvviso e una creatura enorme, rossastra e ardente, si era manifestata. Potente e terribile. “Un Jaychira…” Pensò subito Escol tra sé. Il figlio del Duca abbassò gli occhi e gli fece raccontare ancora alcuni dettagli che caratterizzavano quell’essere invincibile che aveva già incontrato in passato. Poi disse al maestro d’armi che quel terribile avversario, che agognava tanto incontrare, era stato colui che aveva ucciso il mago Eledras! Perfino gli elementali del fuoco lo temevano! Non era un avversario, era una sentenza di morte! Aldor scrollò le spalle. Non gli importava. Anzi, sarebbe stato felice di morire per mano di qualcuno più forte di lui. Il figlio del Duca sorrise, ma scosse la testa. Riuscì solo a sussurrare che sarebbe stato un vero spreco in quel caso. Tuttavia chiosò, dicendogli che il Jaychira aveva un solo punto debole: si nutriva della sua stessa sofferenza, pertanto più veniva ferito e più diventava forte. Bisognava dunque ucciderlo con un solo colpo. Gli occhi di Aldor scintillavano di aspettativa. Con un profondo inchino lo ringraziò per i preziosi consigli e attese la sua decisione. Escol disse a tutti che aveva un lavoro da fare: tornare indietro e trovare la sua famiglia dispersa. Non avrebbe avuto pace finché non l’avesse ritrovata. Slanter cercò di dissuaderlo, poiché quel posto era un inferno: c’era un assedio laggiù! Aldor invece non disse una parola, schierandosi subito al suo fianco. Escol gli domandò se fosse sicuro di accompagnarlo e il maestro d’armi annuì con convinzione: per niente al mondo l’avrebbe lasciato, almeno finché non avesse incontrato questo potente Jaychira. Poi fulminò con gli occhi il nano, ordinandogli di utilizzare le sue indiscusse capacità di battitore, per accompagnare lui ed Escol all’Enclave degli Elfi. Il nano cercò di opporsi e il figlio del Duca scoprì quasi subito il perchè: i suoi famigliari giacevano in catene nelle miniere a sud e l’unico motivo per cui rimanevano ancora in vita, dipendeva dal fatto che lui lavorava per la parte giusta dei due schieramenti. Per quanto potesse apprezzare il punto di vista dei ribelli, non poteva fare diversamente. Quando scattarono le lame di Aldor però, il nano arretrò spaventato. Escol si frappose tra i due, pregando Slanter di ripensarci. Si impegnò solennemente con lui per trarre in salvo la sua famiglia e per parlare con i capi dell’Enclave degli Elfi e far concedere a tutti loro un rifugio sicuro. Messo alle strette, lo scout si convinse. Pregò solo Escol di aspettare l’alba prima di tornare indietro. Il giovane guerriero glielo concesse, approfittando allora per mangiare qualcosa insieme a loro attorno al fuoco. Escol si grattava la barba pensosamente, mentre la sua mente vagava alla ricerca d’ispirazione: lui aveva chiuso con le battaglie eroiche e i nobili propositi! Non gli importava più nulla di Arios. Voleva solo sincerarsi che la sua famiglia stesse bene, poi avrebbe pagato il suo debito con il nano e con il maestro d’arme. Infine avrebbe trovato un luogo tranquillo in cui poter vivere serenamente il resto dei suoi giorni. Sospirando, si tirò la coperta sulle spalle e cercò di dormire qualche ora accanto al fuoco.