Solamente Oscurità.

Escol arrivò a terra con un tonfo sordo. Presumeva di essere ancora vivo solo dal fatto che si stava ponendo la domanda, perché il suo corpo era privo di sensibilità già da diversi minuti, lasciando la sua mente sola e abbandonata a sé stessa. Aveva perso ogni cosa, tra cui anche ogni speranza e francamente, con un pizzico di vergogna, aveva pregato che la caduta in mezzo agli alberi, dove l’Efreet l’aveva lasciato al suo destino, fosse stata sufficiente ad ucciderlo sul colpo. Invece pareva di no. C’erano odori forti intorno a lui, odori di muschio e foglie. E sangue: il suo. Era tutto così dannatamente difficile da mettere a fuoco: il sapore metallico del sangue in bocca inquinava infatti ogni altro tipo di sensazione. Il figlio del Duca era sicuro di una sola cosa. Una sola cosa, che un po' gli risollevò il morale: presto sarebbe morto. E questa sarebbe stata una liberazione per lui! Così, il giovane guerriero, ormai privo di ogni volontà di sopravvivere, si abbandonò al suo triste oblio, lasciandosi avvolgere dall’oscurità. E dal freddo. Gli occhi si aprivano e chiudevano sempre più lentamente, regalandogli gli ultimi scorci d’immagine di una realtà che via via si stava chiudendo definitivamente, mentre la sua anima si preparava ad accedere ai regni immortali. L’ultima volta che le sue palpebre si socchiusero, intravide tra le ombre della morte in agguato una forma sfumata: qualcuno chino su di lui, quasi terrorizzato al solo pensiero di doverlo toccare. Spaventato dal suo solo aspetto. Una risoluta mano poi lo afferrò, dopo che questa presenza, gentile ma angosciata, si era fatta da parte. Emanava una fragranza delicata di rose ed eucalipto. Perfino sdraiato nel fango e sul fogliame, Escol riusciva a percepirne l’aroma. Dopodiché più nulla. Il buio che l’aveva avvolto era totale. Quando un tiepido raggio di sole gli arrivò sugli occhi e lo destò, il figlio del Duca non pensava fosse un’esperienza reale. Il suo primo pensiero fu che anche da morti si poteva sognare. Invece poi esplose il dolore a ricordargli che in realtà era ancora vivo! Non c’era un centimetro del suo corpo che non gli dolesse e che non era stato fasciato. Anche respirare era una totale agonia. Tirarsi su, sulla schiena, fu una delle cose più difficili che riuscì a fare in tutta la sua vita e allora rammentò quanto certe piccole cose, che aveva dato sempre per scontato, invece non lo erano affatto: la luce del sole sul viso o il semplice atto di camminare per esempio, erano dei veri miracoli per cui bisognava sempre ringraziare i Paradine ogni momento della giornata. Grazie alla mera forza di volontà, Escol riuscì poi a mettersi in piedi e iniziò a scrutare la stanza. Voleva capire dove si trovasse e chi fosse stato a salvargli la vita. Poi avrebbe deciso se ringraziarlo o ucciderlo per questo! Era una stanza piccola e spartana, ma dignitosa. Dalla finestra poteva scorgere dei campi coltivati: segno che si trattava di una famiglia di agricoltori. Aveva pensato ad una famiglia, perché lì dentro c’erano più sedie, ognuna delle quali era stata spostata, segno che più d’uno aveva vegliato su di lui. Inoltre non c’era polvere da nessuna parte e, sotto ad una bacinella e ad una piccola caraffa, che erano state messe su un rozzo ma solido tavolo, erano state sistemate due pezze di stoffa di abbellimento, pertanto era altamente probabile ci fosse almeno una donna in quella casa. Considerando che chi aveva tirato su un uomo di cento chili e lo aveva trasportato per chissà quanta strada, non poteva esser stato certo una donna, gli sembrava quasi scontato si trattasse di una famiglia. Escol versò un po’ d’acqua nella bacinella e si specchiò: le sue condizioni lo lasciarono piuttosto incredulo. Era ricoperto di cicatrici su tutto il corpo: l’effetto causato dalle schegge della sua armatura, esplosa in seguito al potente incantesimo che aveva subito da parte dell’Imperatore. Perfino sul viso aveva centinaia di minuscole escoriazioni: segno che qualcuno gli aveva sfilato dalle guance e dalla fronte una vera pioggia di microscopici frammenti metallici. Uno ad uno e con pazienza certosina. Aveva la barba lunga e i capelli arruffati, dettagli che gli fecero pensare che non era passato poco tempo da quando tutto il suo mondo era crollato per sempre. Settimane, mesi forse. L’immagine di Kail che veniva trafitto dal pugnale di Cardras lo investì ad un certo punto senza preavviso, rammentandogli subito cosa si era lasciato alle spalle e il fatto certo, che anche se fossero passati anni, decenni, quel terribile trauma non l’avrebbe mai lasciato in pace. L’avrebbe tormentato per sempre. Escol scivolò e quasi cadde, se non fosse stato per l’intervento di una adolescente che era entrata nelle sue stanze, preoccupata evidentemente dai rumori che egli aveva inavvertitamente provocato. Escol non l’aveva ancora inquadrata, ma aveva riconosciuto il suo profumo di rosa ed eucalipto. Quella fanciulla l’aveva salvato: era stata lei ad averlo ritrovato, più morto che vivo in mezzo alla foresta! “Non puoi alzarti ancora! E’ un miracolo che tu sia ancora vivo, ma è ancora presto per te rimanere sulle tue gambe. Ora sdraiati per favore!” Esclamò la ragazza con fare autoritario. Era vestita come una contadina, ma dal modo in cui teneva la mano sui fianchi e il dito puntato verso di lui a mo' di rimprovero, aveva un temperamento da guerriera. Escol sorrise e si lasciò condurre di nuovo sul letto. Le domandò dove fossero e cosa fosse successo. La ragazza ci pensò un po’ su se fosse il caso rispondere o meno, poi disse pacata: “Se tornerai a letto e lascerai che io ti faccia mangiare un po’ di zuppa, ti dirò quello che vuoi sapere…”. “Un buon compromesso per me…” Pensò Escol, mentre tornava a letto e lasciava che la giovane lo imboccasse come un bambino. Aveva i capelli color miele e gli occhi verdi, tipici dei Nordhmenn. Il figlio del Duca non poté non notare quanto fosse graziosa. Disse di chiamarsi Liss e di vivere nelle piane di Stamstan vicino all’omonimo villaggio, In pratica, a metà strada tra la capitale e l’enclave degli elfi di Koyavik, dove l’Efreet sembrava volesse portarlo. Liss gli raccontò che l’aveva trovato per caso in mezzo al bosco. Era ferito dappertutto ed in maniera strana, tanto che il cerusico del villaggio ci aveva messo parecchi giorni per estrarre quella marea di schegge di ferro da tutto il suo corpo. Fino a due settimane fa, il vecchio Aisen non sapeva dire se il giovane fosse riuscito a sopravvivere o meno. Escol le fermò la mano con il cucchiaio ancora pieno di zuppa. Poi le domandò se fosse successo qualcosa di strano da queste parti, tipo battaglie campali o altri avvenimenti straordinari. Liss increspò la fronte, poi fissò la mano di Escol, che evidentemente stava stringendo un po’ troppo la sua. Il figlio del Duca seguì il suo sguardo, poi mollò la presa, bisbigliando delle scuse un po’ imbarazzate. Paziente, la ragazza sospirò, poi tornò ad imboccarlo, raccontandogli che c’era stata una feroce battaglia poco distante dalla loro fattoria, ma avrebbe dovuto parlare con suo padre se avesse voluto saperne di più. Liss tirò poi via il piatto vuoto e lo mise sul vassoio, ordinando ad Escol di riposare. Il figlio del Duca provò a chiedere se suo padre fosse stato disponibile a scambiare due chiacchiere con lui, ma la giovane rispose che adesso era fuori nei campi, ma che avrebbe potuto condividere con loro la cena, se si fosse sentito sufficientemente in forze per farlo. Escol annuì e la ringraziò. Liss gli sorrise e uscì dalla stanza. Quindi il giovane Nordhmenn cercò di dormire un po’, ma più recuperava le forze e più i ricordi delle atrocità che aveva vissuto, i compagni morti che aveva visto cadere, si riaffacciavano alla memoria, lasciandolo angosciato e disperato. Liss tornò da lui verso sera, invitandolo a condividere la loro tavola. Accanto a lei c’era un uomo massiccio, dai chiari lineamenti Nordhmenn. Non era di lignaggio nobile, ma certamente i suoi tratti erano indiscutibilmente simili ai suoi. Si presentò come Malcom, l’uomo che fisicamente l’aveva salvato, portandolo nella sua casa e curandolo e nutrendolo per tutto questo tempo. Escol chinò il capo, trovando difficoltà a scegliere le parole giuste per ringraziare in maniera degna quell’uomo buono. Poi si alzò e si lasciò condurre in cucina, dove fece la conoscenza di Keira, sua moglie. Una donna bellissima, anche se consumata dall’asprezza della vita rurale. Il suo sorriso era una benedizione. Un po’ imbarazzato, il figlio del Duca si presentò con il suo vero nome. Pensò che era una cosa che doveva a quella famiglia così speciale. Evidentemente intuendo i suoi nobili natali, Malcom gli aveva offerto il suo posto a capotavola, che però lui aveva rifiutato. Quindi raccontò alcuni dettagli del suo arrivo nelle piane di Stamstan soddisfacendo quanto più possibile la comprensibile curiosità di Liss. Quando riferì di essere caduto dal cielo, a causa di un “elementale dell’aria” che stava provando a portarlo in salvo, l’intera famiglia rimase attonita. Assorbivano avidamente ogni parola pronunciata dal giovane Nordhmenn, ma sempre con discrezione, rispettando le sue pause e le sue volontarie ed evidenti omissioni. Il figlio del Duca non scese nei particolari, ma fece intendere che la sua presenza lì era collegata con i fatti accaduti nella capitale. Quando fu il suo turno di porre le domande, Malcom gli raccontò di una grande battaglia campale combattuta poco più a sud ovest, circa due mesi prima. Da una parte erano schierati gli eserciti dei ribelli, guidati dal Duca di Berge e comprendevano Nordhmenn esiliati, Elfi e Nani. Dall’altra, le terribili legioni imperiali. La rivolta venne sedata dopo pochi giorni e il loro condottiero scortato in catene nella capitale. A causa di un editto speciale, tutte le terre degli esiliati sarebbero state confiscate con decorrenza immediata e qualunque forma di resistenza all’impero, repressa con forza e spietatezza. Le uniche a continuare a non cedere allo stradominio di Arios, erano rimaste le enclavi elfiche, poche cittadelle naniche e alcuni clan dei Nordhmenn puri. “E’ davvero finita allora…” Pensò Escol tra sé, rabbuiandosi. Le sue terre, suo padre, i suoi alleati: erano tutti andati. Rimanendo in silenzio, il figlio del Duca attese la fine della cena per congedarsi e tornare mestamente nelle sue stanze. Nessuno osò intromettersi in qualsivoglia modo per tentare di spezzare il suo bieco cipiglio. Liss si limitò ad osservarlo con grande pena, percependo molto bene il suo tormento. Mentre con difficoltà prese posto sul letto, rifletté su ciò che gli restava della sua vecchia vita. Purtroppo, chiudendo gli occhi stanchi e girandosi con fatica su un fianco, dovette amaramente riconoscere che per lui non c’era altro che oscurità. Una totale e avvolgente oscurità. Dolorante, si addormentò.