La città di Oldenes era grande e stratificata, c’erano diverse locande e un gran numero di negozi. Inoltre era una delle poche ad avere delle imponenti mura di cinta a proteggerla, segno inequivocabile che era un punto strategico importante sulla scacchiera imperiale. Le guardie all’entrata non ebbero comunque problemi a farli entrare: d’altronde Escol aveva un invito formale, scritto di suo pugno e con tanto di sigillo da parte del figlio di Astarte, pertanto nessuno fece loro troppe domande. Il figlio del Duca notò subito che Oldenes era senza dubbio la città più grande tra quelle che aveva visitato durante il suo passaggio attraverso i territori imperiali. Quindi, presumibilmente, anche quella che doveva contare più soldati e legionari a disposizione. Avrebbero dovuto prestare quindi molta attenzione. Mentre i cavalli procedevano avanti lentamente, Andor si era raccolto nella sua pesante cappa: meglio non farsi vedere in giro dalla gente del luogo o da qualche imperiale particolarmente fisiognomico e non fedele ad Astarte come quelli ai cancelli. Qualcuno avrebbe potuto riconoscerlo e poi sarebbero stati guai seri per tutti. Quindi optò per condurre la compagnia direttamente al centro di comando del generale: un complesso solido e ben strutturato su pianta rettangolare, che prendeva una buona fetta dell’intera superficie a nord est della città. Come entrarono nel cortile dell’edificio il principe scoprì il viso, indicando in questo modo ad Escol e ai suoi compagni che ora si trovavano in un territorio amico. Lasciati i cavalli nelle stalle, la compagnia guidata da Andor si diresse verso il bastione ovest e si presentò ai soldati di guardia. Escol mostrò nuovamente il suo “lasciapassare” e la guardia imperiale non gli impedì certo di entrare. Fu simpatico il siparietto tra costui ed Eofaulf, quando il soldato riconobbe lo scout. Ad Escol sembrò evidente che la fama del ranger, conquistata senza dubbio e con merito sul campo, fosse rimasta nella memoria dei suoi ex compagni d’arme argentina e solida come un tempo, visto che il soldato si augurava vivamente che egli fosse tornato per restare e servire come aveva fatto anni prima. L’imperiale scortò poi la compagnia lungo un dritto corridoio, con quadri appesi, arazzi antichi e spade e scudi incrociati, appartenenti a momenti diversi della storia dell’impero. Giunsero infine in un’ampia stanza, probabilmente una “sala tattica”, ove giaceva seduto un uomo massiccio, ed avanti con l’età, intento a leggere dei comuni rapporti. Quando scorse Andor sull’uscio, egli si alzò di scatto e gli fece segno di entrare. Aveva già superato i sessanta, ma era l’uomo più imponente che Escol avesse mai visto in vita sua. Alto quasi due metri, ancora sodo e muscoloso, faceva paura solo a guardarlo. Egli non disse una parola, limitandosi a troneggiare per un breve istante su tutti i presenti. Poi arrivò di fronte Andor e si inginocchiò al suo cospetto! Vista la sua stazza e la minacciosa spada lunga che portava al fianco, Escol fu davvero lieto che i due si conoscessero evidentemente da molto tempo. Quando Andor lo afferrò per le spalle e lo tirò su, scuotendo la testa e dicendogli che non serviva che si prostrasse innanzi ad un amico, il figlio del Duca capì chi era quell’uomo. Egli era Victor Astarte: il più famoso generale delle truppe imperiali! Finalmente l’aveva incontrato. Aveva uno sguardo duro, ma non orgoglioso. Forte, ma non vanitoso. Determinato, ma non arrogante. Soprattutto trattava Andor come fosse l’imperatore in persona, la qual cosa, in effetti, non era poi così distante dalla verità. Il suo maestro superò brillantemente tutti i convenevoli per poi arrivare a presentare lui ed i suoi amici. Illustrò brevemente perché fossero lì e il generale fu contento di conoscere il figlio di un suo vecchio amico: il Duca di Berge! Astarte intuì, inoltre, dalla piega che poi stava prendendo la conversazione, che il principe Andor era giunto da lui per parlare di Kail. Questo significava che il momento era infine arrivato. Prima di iniziare a discuterne, andò subito a chiamare un paggio e gli ordinò di accompagnare i suoi ospiti nelle loro stanze. Sarebbero rimasti nella sua “casa” per tutto il tempo che avessero desiderato, nel frattempo loro avrebbero stabilito come procedere con “suo figlio”. Si perché, da come stava affrontando il discorso, l’amarezza e la preoccupazione che palesava nelle sue parole, sembrava che Kail fosse veramente suo figlio e l’idea di lasciarlo andare da solo, a percorrere il suo destino, lo terrorizzava letteralmente. Escol si era fatto un'idea molto diversa di lui. Aveva fantasticato molto, nei mesi che avevano preceduto il suo arrivo a Oldenes, su come sarebbe stato conoscere il grande Victor Astarte. Lo aveva immaginato spietato ed austero, autoritario e carismatico. Ora invece gli sembrava solo un padre spaventato all’idea di dover perdere per sempre suo figlio. Perché in un modo o nell’altro, egli sapeva bene che lo avrebbe perso. Già solo fargli conoscere la verità avrebbe significato perderlo. Infatti, se avesse avuto successo e avesse ucciso Arios, Kail sarebbe diventato imperatore e lui solo il suo più grande generale. Se fosse morto, beh, inutile descrivere questa opzione. Senza contare che avrebbe dovuto confessare che aveva ucciso il suo vero padre! Quindi, comunque fossero andate le cose, lui e suo figlio, quel giorno, si sarebbero allontanati per sempre. Eppure non c’era modo di evitare queste conseguenze. Kail era il prescelto e tutti quegli anni di preparazione, decenni in cui l’Ordine si era silenziosamente sparpagliato per tutto l’impero, con pazienza, in modo tentacolare, in attesa, erano serviti per arrivare a questo momento. Astarte suggerì che era inutile girare intorno al punto: suo figlio era testardo e risoluto come lui. Pertanto sarebbe stato meglio dirgli come stavano le cose, direttamente e senza perdere tempo in edulcoranti sofisticazioni dialettiche. I tre uomini rimasti nella sala tattica si guardarono intensamente, poi annuirono. Quindi Victor fece chiamare subito Kail, il quale arrivò trafelato dopo qualche minuto. Come il giovane riconobbe Escol, gli andò subito incontro, salutandolo affettuosamente con un abbraccio. Lo presentò con tutti gli onori a suo padre, commentando che egli aveva salvato la sua vita e quella dei suoi compagni nello scontro con gli Asura e che era davvero un guerriero straordinario. Ovviamente lo introdusse come “Theodor”, che era il nome che aveva usato Escol quando si erano conosciuti. Sia il figlio del Duca che Astarte tenevano lo sguardo basso, triste e addolorato. Kail ovviamente chiese lumi riguardo tutta quella mestizia che percepiva nell’aria. Andor invitò il giovane a sedersi, ed iniziò a parlargli con calma. Iniziò a raccontargli dell’Ordine e di Arios, che ne aveva fatto parte molti anni prima, del perché l’imperatore fosse stato in seguito definito come “il Maledetto” e della situazione politica attuale dell’impero. Kail non amava certamente Arios. Come suo padre, era fedele “all’impero”, ma i metodi dell’imperatore, il suo odio razzista e la sua crudele tirannia verso il popolo stesso di cui avrebbe dovuto occuparsi, l’avevano portato a non apprezzarlo affatto. Né lui e né i suoi altrettanto “maledetti” inquisitori. Capire quale fosse la sua posizione a riguardo rincuorò di molto Andor, che indicò a quel punto che Arios poteva e doveva essere destituito e al suo posto poteva e doveva salire qualcuno che fosse legittimato a farlo. Qualcuno di sangue reale: un discendente della famiglia Mohdi. Kail ascoltava attentamente le parole del principe, ma ancora non capiva dove volesse arrivare. Fu a quel punto che Andor gli raccontò delle sue vere radici e della sua eredità. Egli era “Kail Mohdi”, figlio di “Andreas Mohdi” e dunque l’ultimo, vero imperatore per linea di sangue. Escol guardava attentamente Kail, mentre Andor gli faceva a pezzi la vita che aveva vissuto fino a quel momento. Quando Astarte confermò le parole del principe, soprattutto quelle relative alla sua famiglia, ed ammise che “Andreas” era stato davvero il suo padre biologico e che quindi il principe Andor era di fatto suo zio, l’espressione del giovane cambiò da scettica ad annichilita. In effetti, come si poteva riuscire ad assorbire informazioni di quella portata tutte insieme e contemporaneamente? Ancor più difficile sarebbe stato metabolizzarle. Ecco perché Escol decise di intervenire, spiegando che quanto detto finora era certamente vero, che per lui sarebbe stato molto difficile accettare quelle parole e poi dover passare necessariamente dalle parole ai fatti, ma che non avrebbe dovuto farlo da solo. Lui infatti sarebbe rimasto al suo fianco, sempre. L’avrebbe aiutato e consigliato, protetto e guidato, se gliel’avesse permesso. Il tempo c’era, per crescere, per maturare. Sarebbero dovuti partire, perché il suo sacro compito di uccidere Arios e riunificare Eord, iniziava da un pugnale nascosto a nord, tra neve, ghiaccio, ed Okar, ma il momento in cui avrebbe dovuto affrontare l’imperatore era solo l’apice del suo percorso. Egli avrebbe dovuto prima guardare con i suoi occhi le condizioni in cui vertevano le razze che il “Maledetto” osteggiava continuamente, perché solo vedendo le cose personalmente, vivendo le afflizioni di quella povera gente, il loro dolore e la loro sofferenza, si poteva riuscire a cambiare le cose. La vera missione che avrebbe dovuto affrontare, la sua parte più complessa, sarebbe stata quella presente nel viaggio che avrebbe intrapreso e non nella sua conclusione. Combattere e sconfiggere Arios era l’obiettivo, certo. Tuttavia, se ci fosse arrivato bene, avrebbe trovato da solo le giuste motivazioni per vincere quello scontro. Per abbattere la tirannia. Se durante il suo cammino non avesse compreso “il perchè” Arios doveva essere sconfitto, anche se l’avesse sconfitto, non sarebbe servito a molto. Egli sarebbe divenuto un imperatore come era stato Arios: gretto, meschino, intollerante e avido. In una parola: un tiranno “maledetto”. Kail abbassò lo sguardo, poi bisbigliò che aveva bisogno di rimanere solo per un po’. Si alzò ed uscì tosto dalla stanza. Astarte sprofondò nella sedia, affranto, passandosi una mano callosa sul viso. Andor chiuse gli occhi, sinceramente dispiaciuto per quel giovane, le cui spalle erano troppo piccole ancora per sopportare il peso del suo destino. Escol era rimasto invece immobile, poco dietro il principe, come l’allievo soleva fare con il maestro. Entrambi attesero pazientemente che Astarte tornasse in sé. Andor fece poi un passo avanti e chiese all’amico di investire il suo allievo del titolo di “Guerriero dell’Ordine”, perché solo in questo modo Escol avrebbe potuto ricevere la tutela di Kail. Victor si alzò e raggiunse il figlio del Duca, mentre Andor faceva qualche passo indietro. Escol si inginocchiò e lasciò che Astarte pronunciasse le frasi di rito che gli avrebbero garantito i voti e una nuova posizione di prestigio all’interno dell’Ordine. Alla fine del rituale, Astarte gli consegnò l’anello con i simboli della spada e del libro e gli ordinò di alzarsi. Escol era alto più di un metro ed ottanta, ma sembrava uno scricciolo in confronto al grande generale. Egli lo afferrò per le spalle, gli offrì un sincero sorriso e gli disse: “Benvenuto tra i guerrieri più valorosi, giovane Escol, figlio del mio amico Duca di Berge. Hai parlato con saggezza a mio figlio, prima. Utilizzando parole che forse nemmeno io avrei saputo pronunciare. Sono felice di averti dato l’investitura personalmente e soprattutto sono felice che resterai accanto a mio figlio, guidandolo attraverso questo percorso di maturazione e crescita che dovrà compiere. E’ un bravo ragazzo, coraggioso e determinato. Vedrai che sarà un ottimo allievo per te. Proteggilo, soprattutto da sé stesso.” Escol annuì, ma non riusciva a non provare pena per il generale. Ecco perché giurò a sé stesso di non rivelare mai, mai e poi mai a Kail, ciò che egli aveva fatto al suo vero padre!
Capitolo 11 - Al cospetto del generale Victor Astarte.
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- Scritto da Jack Warren
- Categoria: Eord
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