“Voi siete Dakkar Astarte, mio signore?” Escol si era lentamente girato dopo che era stato richiamato per ben tre volte e alle sue spalle, scortata da due coscritti, si era fermata una donna, armata fino ai denti, più o meno della sua età. Alla fine era riuscita ad intercettarlo prima che uscisse dal cortile della tenuta del governatore. Il figlio del Duca la scrutò molto bene prima di risponderle. Aveva gli occhi verdi, un portamento fiero, uno scudo sulle spalle e una spada al fianco. Inoltre indossava un’armatura col sigillo imperiale e aveva una lunga cicatrice sulla guancia sinistra, probabilmente inferta da un’arma sottile, come un pugnale o uno stiletto. Dall’atteggiamento che aveva, determinato e risoluto, sembrava una Nordhmenn purosangue. Escol alla fine annuì. “Dovete venire con me, mio signore. Mi chiamo Lia Charron e sono il luogotenente del governatore Winther. Avrei delle questioni urgenti di cui discutere con voi. Questioni che la mia signora preferiva che fossi io a riportarvi….” Escol si voltò verso Jonas e gli disse di tornare alla locanda con il lasciapassare. Inoltre aggiunse di pensare agli approvvigionamenti necessari per poter arrivare alla prossima tappa del loro cammino: lui avrebbe risolto questa questione e poi li avrebbe raggiunti. Jonas gettò uno sguardo poco convinto verso la giovane ufficiale, poi annuì, rassicurando Escol che avrebbe pensato a tutto lui questa volta. Quindi salutò il luogotenente con un lieve inchino e si accomiatò. Il figlio del Duca lo guardò allontanarsi per qualche secondo, poi sospirò, augurandosi di non aver sbagliato giudizio su Kathell Winther. La donna lo guardò con un pizzico di curiosità e gli offrì un breve sorriso, poi con una mano lo invitò ad affiancarla, mentre le guardie prendevano posto dietro di loro. Ai timidi tentativi di Escol di ottenere qualche anticipazione, l’ufficiale ribadì di chiamarsi Lia Charron e ripeté di essere al servizio del governatore, per la quale stava svolgendo un compito importante. Non aggiunse molto altro finché non arrivarono a destinazione. La loro mèta era nell’ala est, al secondo piano della tenuta. Tutto quel silenzio e gli sguardi curiosi dei coscritti che incontravano lungo il tragitto, non aiutarono Escol a mantenere alto il suo umore: la mano era scivolata istintivamente sullo spadone che aveva legato alla schiena più di una volta, segno che non si sentiva affatto al sicuro. Purtroppo, il figlio del Duca aveva preferito andare senza oggetti magici all’incontro con Kathell Winther e adesso non gli rimaneva che la sua fedele spada lunga di famiglia a difenderlo in caso di pericolo. Comunque, Lia Charron si fermò innanzi una stanza aperta, solo di poco meno spaziosa di quella del governatore. Fece segno ad Escol di entrare e richiuse la porta dietro le sue spalle, lasciando così fuori la sua scorta personale. La giovane ufficiale fece il giro di una piccola scrivania e si accomodò, aspettando con pazienza che anche il suo interlocutore facesse altrettanto. Escol si guardò intorno, fece con gli occhi un’ampia panoramica della stanza e poi si mise a sedere. La donna sorrise, ed unì entrambe le mani sulla scrivania. Quindi venne subito al punto. “Un amico in comune mi ha chiesto di dirvi, qualora vi avessi incontrato, che vi aspetta qualcosa per voi al Tempio cittadino. Qualcosa di molto importante per la vostra crescita all’interno dell’Ordine…” Lia Charron continuava a tamburellare con le dita sul legno, ripetendo senza sosta il codice di riconoscimento dei seguaci dell’Ordine. Escol notò subito questo dettaglio, ma non era certo uno sprovveduto. Staccando la schiena dalla sedia, si volse verso di lei, quasi a sfidarne l’autorità, mettendo in discussione la veridicità delle sue parole. “Dunque, mia signora, avete mentito dicendo che fosse stata Kathell Winther a volermi comunicare un messaggio importante attraverso la vostra voce. Dico bene?” Lia Charron non rispose, limitandosi a guardarlo fisso negli occhi. Quindi Escol continuò. “E ditemi, mia signora, quali altre menzogne siete in grado di proferire impunemente, spacciandole come vere?” L'ufficiale imperiale abbozzò di nuovo un lieve sorriso, interrompendo immediatamente il suo tamburellare con le dita. “La mia vita è appesa ad un filo costantemente, mio signore. Rischio molto a parlare con voi e di queste cose per giunta. Sappiate solamente, dunque, che il principe Andor mi ha chiesto di consigliarvi di raggiungere uno dei suoi portavoce al Tempio di Kryseta. Lo scopo mi è parso chiaro: svolgere laggiù una parte importante della vostra “prova”. Una sfida imprescindibile, che tutti i membri dell’Ordine devono accettare per poter proseguire il loro cammino nella famiglia. Tuttavia, ciò che farete quando uscirete da qui è affar vostro, non mio. Io comunque avrò svolto il mio compito con successo e di questo il principe Andor ne sarà in ogni caso contento.” Escol si riaccostò, con uno scatto secco, allo schienale della sedia. Perplesso ed insieme preoccupato, si fermò a riflettere per alcuni secondi. Era più che possibile che l’Ordine avesse infiltrati ovunque nell’impero, perfino vicino alla poltrona di un governatore, ma il rischio che qualcuno potesse ormai sapere che Dakkar Astarte facesse parte dell’Ordine poteva benissimo esistere, arrivati a questo punto della sua missione. Aveva incontrato diverse persone lungo il suo viaggio che, come lui, erano fedeli all’Ordine. Persone con cui si era messo a nudo, ed aveva condiviso ragguagli e risorse. Persone che in seguito potevano esser state identificate, torturate (come era successo a Vala) e a cui potevano esser state estorte informazioni importanti, come il linguaggio dei segni per esempio, ed il rischio che questo dettaglio potesse ampiamente bastare per mandare a monte l’intera “operazione” sarebbe stato drammaticamente più che probabile. Tutto il suo viaggio verso Kail era come un castello di carte: ogni strada, città o persona che incontrava, era una carta che aggiungeva al suo bel castello, ma sarebbe bastato solo un piccolo sbaglio, un lieve brezza di vento, un errore di valutazione, per far cadere tutto e mandare a monte la salvezza di Eord. Escol non poteva permetterselo. Ecco perché non confermò né smentì alcunché con Lia Charron. Ringraziò semplicemente la donna per avergli riportato quello strano messaggio, poi si alzò e le domandò se poteva esser congedato. Lia Charron lo osservò attentamente, poi annuì lentamente senza dire una parola. Escol a quel punto fece un lieve inchino ed uscì dalla stanza. Temendo di non essere ancora fuori pericolo, si preparò al peggio una volta fuori, ma nessun coscritto minacciò la sua vita o gli intimò di fermarsi, pertanto il figlio del Duca guadagnò finalmente l’uscita della tenuta senza alcun impedimento. A grandi passi scivolò tra i vicoli della città, arrivando alla locanda quando era appena ora di pranzo. Ovviamente i suoi compagni si erano ben guardati dall’aspettarlo, a giudicare dai piatti vuoti che riempivano il tavolo. Tuttavia, Escol non aveva molto appetito, pertanto si assicurò soltanto che Alarien stesse bene e che le provviste fossero state caricate sul carro. Poi avvertì i suoi compagni che prima di unirsi a loro, avrebbe dovuto svolgere un altro compito delicato: raggiungere il Tempio cittadino ed incontrare lì una persona. Egli non escluse che potesse trattarsi di una trappola, tuttavia fu categorico sul fatto che sarebbe dovuto andare da solo. Lia Charron aveva parlato di “Dakkar Astarte” e non di lui e della sua compagnia, pertanto in questo modo, forse, se qualcosa fosse andato storto, avrebbe evitato di coinvolgere i suoi amici. Eofaulf rassicurò il giovane guerriero riferendogli che la sua amica elfa era nelle sue stanze, al piano di sopra, in attesa di ottenere ulteriori disposizioni. Inoltre timidamente propose di preparare un “piano B” prima che lui andasse a quell’appuntamento, ma Escol era troppo scosso ed insieme preoccupato per vedere con chiarezza strade alternative a quello che andava fatto. Come spesso soleva fare, prendeva la strada più diretta per risolvere simili questioni, ed ormai i suoi compagni avevano imparato a conoscerlo e ad accettare il suo modo di fare. Quindi annuì, si voltò, ed uscì tosto dalla locanda. Non fu difficile per il figlio del Duca trovare il tempio del “Padre Viola” e ancor meno scoprire se Lia Charron l’aveva spedito dritto dentro una trappola o meno. Infatti gli bastò domandare ad un prete, che stava sistemando una specie di piccolo altare dedicato alla sua divinità, se vi fosse nell’edificio qualcuno, che lui sapesse, che stava attendendo l’arrivo di “Dakkar Astarte” per scoprirlo. Il prete, che disse di chiamarsi Albin Krahlay confermò tutto ciò che Lia Charron gli aveva detto su Andor e la sua prova e di seguirlo all’interno del tempio, laddove orecchi ed occhi indiscreti non avrebbero potuto interessarsi ai loro movimenti e alle loro parole. I due entrarono in una piccola sagrestia e lì, dentro una teca ben nascosta e chiusa a chiave, Albin Krahlay estrasse una pergamena che aveva in bella mostra il sigillo di Andor. Escol la afferrò, non senza un pò di esitazione. Guardava il prete come se cercasse da lui qualche spiegazione prima di aprirla e leggerla. Albin Krahlay sorrise condiscendente, poi commentò semplicemente che quella pergamena rappresentava una tappa importante nella sua prova, che riguardava essenzialmente il giudizio che lui avrebbe dato a sé stesso del cammino fatto finora verso il livello successivo da raggiungere nell’Ordine: quello di “guerriero” dello stesso! Un traguardo prestigioso e ambito da tutti i suoi membri. Escol sapeva bene che i dogmi della setta erano tre. Tre adamantine pietre miliari: Giustizia, Lealtà e Compassione, rappresentate da tre sigilli evidenziati nella pergamena. Il prete sostanzialmente spiegò al figlio del  Duca che avrebbe dovuto solamente rompere quei sigilli in cui pensava non esser stato all’altezza da quando aveva iniziato la sua prova, ed il gioco era fatto. Tuttavia la cosa non era così semplice come poteva sembrare. Escol iniziò a passeggiare per la stanza, riflettendo meglio su quelle parole. Rammentando quello che era successo alla locanda di Hvamsund con l’ostessa, si rese conto che certo non era stato sempre compassionevole, così come che a volte aveva trucidato i suoi avversari quando avrebbe potuto risparmiar loro la vita. La “Lealtà” era invero un sentimento che lui sentiva forte nei confronti dei suoi compagni e dei suoi amici, ma non certo nei confronti dell’Ordine: una setta che, per quanto basata su principi cristallini, poteva corrompersi un giorno, come aveva fatto l’impero in un’epoca nemmeno troppo lontana. Infine anche riguardo la “Giustizia”, che era un concetto che suo padre aveva provato ad insegnargli fin da piccolo e che lui si sforzava di perpetrare in ogni azione che faceva, non poteva affermare, a mente lucida ed onestamente, che fosse stato sempre “giusto”, nei confronti di tutti ed in ogni sua scelta. All’inizio aveva pensato di svellere solo il sigillo della “Compassione”, poi, ragionandoci su, ritenne che andava fatto lo stesso anche per quello della “Lealtà” e lasciar sano solo quella della “Giustizia”, ma alla fine sentiva che non sarebbe stato onesto nemmeno fare così, decidendo quindi di spezzarli tutti e tre. Stava davvero per farlo, quando però un pensiero potente o forse una voce sferzante gli trafisse la mente: non si sarebbe prestato a quel giudizio così netto, così assoluto! Non sarebbe stata una decisione sensata nemmeno agire in quel modo. Soprattutto nei suoi confronti, che tanto aveva fatto per il popolo nanico, per gli elfi (che avevano creduto in lui al punto di scomodare Eledras) e per la sua stessa gente, i Nordhmenn, esuli ed imperiali, che stava cercando disperatamente di difendere e di strappare dalle grinfie del “maledetto”. Aveva rischiato tutto per la sua missione, mettendo la propria vita e quella dei suoi compagni di viaggio in costante pericolo, aveva creato “il terrore d’argento”, un’altra pesante spada che adesso gravava sulla sua testa, per depistare Bedde e i suoi scagnozzi e tutto questo solo per conseguire il suo vero ed unico obiettivo: raggiungere e difendere a costo della vita il giovane prescelto di nome Kail. Un perfetto sconosciuto, ma che gli era stato detto sarebbe stato colui che avrebbe ucciso Arios! L’unica scelta che sarebbe stata davvero accurata dunque, sarebbe stata quella dell’astensione! Pertanto si voltò verso il prete e spiegò a lui le ragioni di una simile scelta. Albin Krahlay lo ascoltò con pazienza, ma alla fine rispose che questo chiarimento, queste parole a tratti amare, avrebbe dovuto pronunciarle al suo maestro: al principe Andor direttamente, quando l’avrebbe incontrato. D’altronde era la sua prova e solo il suo maestro avrebbe potuto giudicarla. Escol dunque tenne la pergamena ed annuì, ben comprendendo la profondità delle parole del prete. Avrebbe dunque rischiato anche questo: deludere il suo mentore con la sua scelta. In ogni caso, un rischio in più o in meno non avrebbe fatto alcuna differenza. Escol non temeva il giudizio di Andor, perché in cuor suo sapeva bene di essere solo umano e avrebbe lasciato volentieri a lui l’onere di esprimere una critica così netta sul suo operato. Per adesso, aveva cose ben più importanti ed urgenti da fare e a cui pensare. Ringraziando Albin Krahlay per la sua infinita pazienza, il figlio del Duca uscì a grandi passi dal Tempio e stranamente sentiva adesso un peso in meno gravare sul suo cuore. Per la prima volta da quando era partito si sentì libero da ogni condizionamento!