Il figlio del Duca entrò con passo veloce all’interno della tenuta dei Nelothien. Era davvero di pessimo umore. Non tanto per l’esito della sua chiacchierata con Eledras e con il successivo accordo che aveva stipulato con il suo assai poco gradito ospite, “Maestro delle Ombre”, ma per il fatto che non sapeva ancora se fosse un bene riportare alcune informazioni scomode su quell’incontro a Celador o meno. Da quel poco che aveva capito infatti, Eledras era un personaggio molto importante tra gli elfi: uno di quelli che quasi venivano idolatrati da tutti loro, compreso lo stesso Celador. Come avrebbe reagito dunque il fratello di Enwel se gli avesse rivelato che il potente mago Eledras soleva spesso intrattenersi con l’aguzzino di sua sorella? Che proprio lui gli aveva consigliato di siglare il patto con il “Maestro delle Ombre”, proprio per evitare un destino simile a quello che era toccato a lei? Perso in questi cupi pensieri, Escol non si rese nemmeno conto di essere arrivato, scortato dal silenzioso paggio elfico, di nuovo nei grandi saloni della tenuta di Celador. Un’altra cosa strana che realizzò fu che i suoi amici non erano lì ad aspettarlo (in fondo era stato via poche ore) e che l’ultimo erede del casato Nelothien fosse all’apparenza piuttosto stanco. Quando il giovane Nordhmenn apprese che era molto tardi e che era rimasto all’interno dei “Giardini Sacri” molto più tempo di quanto immaginasse, si scusò con il suo ospite e gli domandò se avesse il suo permesso per poter anch’egli raggiungere le sue stanze e riposare. L’elfo si alzò lentamente, spiegando al giovane umano che c’era un motivo per cui l’aveva aspettato in piedi fino a tardi. Prima di partire per la battaglia contro gli Okar infatti, sua sorella aveva lasciato nelle sue mani una pergamena assai strana, che aveva scritto di suo pugno, che aveva ovviamente letto con attenzione, ma all’epoca non interamente compreso. Adesso che tutto era diventato più chiaro, era giunto alla conclusione che fosse stata scritta proprio per quel giovane ospite umano. Ovviamente sua sorella non poteva averlo conosciuto, poiché loro si erano incontrati solo molto dopo che lei gli aveva fatto custodire quella lettera, ma Celador era convinto che ella avesse già visto il volto di Escol nei suoi sogni o nelle sue premonizioni. Enwel infatti aveva un grande talento come veggente: solo così si poteva spiegare il dono immenso, ma anche un pò prematuro, che aveva fatto al Nordhmenn, del “legame indissolubile”. Era dunque venuto il momento, secondo il suo parere, che anche il suo ospite leggesse quelle carte, perché era convinto che sua sorella avrebbe mantenuto la sua parola quando aveva giurato di aiutarlo con ogni mezzo per raggiungere il suo nobile scopo. Celador pronunciò poche parole, ma intense, tanto che il giovane umano annuì senza aggiungere nulla, lasciandosi scortare dal padrone di casa fino alle stanze di sua sorella. Escol domandò poi a Celador se avesse voluto rimanere con lui, ma si rese conto subito quanto fosse doloroso per l’elfo semplicemente avvicinarsi a quella porta chiusa, così silenziosa e solitaria. Il figlio del Duca poteva ben comprendere la sua posizione ed il suo stato d’animo: anche per lui era affatto semplice entrare nella camera di Enwel e partecipare del suo mondo attraverso le sue cose. Tuttavia, alla fine Escol sospirò affranto ed entrò, mentre Celador gli voltava le spalle tristemente e tornava ai suoi affari. La stanza era semplice: c’era uno specchio molto grande, un letto spazioso e perfettamente rifatto abbellito da dei cuscini rossi e verdi, uno studiolo con degli appunti e delle carte, un armadio piuttosto grande e una specie di credenza, dove Enwel teneva le materie prime per le sue pozioni e per i suoi “incantesimi”, come Eledras li aveva chiamati. Un tappeto rosso e verde, circolare, giaceva al centro della stanza, ed Escol notò che la luce della luna, filtrando dalla finestra fino a investire le maglie del tappeto, in qualche modo reagiva con esse creando dei riflessi argentini di una bellezza incredibile. “Chissà quali magnifici colori creerà la luce del sole al mattino allora…” Sorrise a quel pensiero il giovane, mentre il suo cuore veniva stretto in una presa dolorosa quasi insopportabile e una delle sue mani si trovò a sfiorare il ciondolo che Enwel le aveva regalato. Aveva gli occhi inumiditi da lacrime che si sforzava di trattenere. Fece qualche passo incerto nella stanza, guardandosi intorno, finché, sul letto, notò due fogli di pergamena, compilati da una calligrafia elegante e raffinata. Escol li prese e iniziò a leggerli: erano scritti in lingua Nordhmenn! Essi incredibilmente parlavano del loro incontro, del fatto che lei non lo avesse mai visto di persona, ma che già giurava di conoscerlo da sempre. Enwel sapeva persino che lui l’avrebbe salvata dagli Okar, prigioniera in quella maledetta radura. La radura dove più tardi e a sua insaputa avrebbe scelto di morire. Tuttavia la lettera non era solo una specie di riassunto di ciò che era capitato ad entrambi, ma apriva un ampio sguardo verso il suo futuro. Un futuro che sarebbe stato difficile, ma che lei avrebbe cercato di rendergli un po più agevole. Ella invocò qualcosa che definì “il richiamo degli antenati”. Una specie di rituale, che solo in pochi potevano sperare di realizzare e che avrebbe messo “colui che era stato scelto”, innanzi ai loro defunti, che lo avrebbero consigliato o aiutato come essi avrebbero ritenuto opportuno. Quindi la lettera terminò con un invito a riflettere bene su quelle parole, sottolineando che egli avrebbe dovuto iniziare da lì, da quella stessa stanza, se avesse voluto accedere a questo aiuto soprannaturale. Infine chiosava con uno strano indovinello: “Ci sei dentro ma non puoi entrarci. Cos’è?”. Escol all’inizio riteneva poco probabile che attraverso un enigma di qualche tipo avrebbe potuto accedere al regno dei morti, ma poi pensò che si trovava molto lontano da casa e che gli elfi, agli occhi dei Nordhmenn, potevano apparire piuttosto esotici e un po bislacchi, come usanze e costumi. Pertanto alla fine provò a ragionarci su e tenendo presente le parole di Enwel, si concentrò sugli oggetti presenti in quella stanza. Finì dunque per mettere gli occhi sul grande specchio ovale all’entrata. Con alcuni brevi passi si mise innanzi ad esso, ed annuì. Poi bisbigliò, senza troppa convinzione, ma deciso fino all’ultimo a seguire le indicazioni di Enwel: “lo specchio” e quello che accadde dopo lo lasciò senza parole. All’interno dell’ovale nel quale la sua immagine si rifletteva, un turbinio di vapori inconsistenti iniziò a vorticare, addirittura fuoriuscendo da esso e sfiorandolo lievemente, come se i tentacoli delle volute di fumo volessero invitarlo ad entrare. Incredulo, Escol assaggiò così per la prima volta un abbrivio di magia elfica. Il giovane umano aveva un pò di paura a calarsi in quell’ignoto, ma poi ritenne che Enwel mai l’avrebbe messo in pericolo. Dunque si fece forza e sparì, avvolto da quei vapori colorati. Riapparve in quello che sembrava un pianerottolo sopraelevato, all’interno di una costruzione dai tratti chiaramente elfici. Guardandosi intorno, Escol intuì che quell’ambiente aveva qualcosa di familiare. Si avvicinò alla balaustra e quando scorse cosa ci fosse sotto, rimase ancora una volta senza parole. Quella era la tenuta Nelothien! Tuttavia aveva qualcosa di diverso, qualcosa di antico. Mentre scendeva le scale, il figlio del Duca si convinse sempre più che quello che stava calpestando era lo stesso pavimento della casa di Celador, eppure l’arredamento, gli arazzi e più in generale il modo con cui erano strutturati gli ambienti che via via stava attraversando, sembravano appartenere ad un ormai perduto passato. Quando entrò nel grande salone centrale, scoprì che esso assomigliava di più ad una sala del trono. Questo perché al centro della stessa non vi era lo stesso lungo tavolo che li aveva accolti per cena, ma un alto ed imponente scranno, con un elfo dall’aria stanca ma solenne seduto sopra di esso. Escol deglutì, guardandosi attorno, temendo che potesse succedere qualcosa di spiacevole, ma niente pareva turbare quell’elfo. Il silenzio era quasi assoluto qui. Quando il figlio del Duca arrivò davanti lo scranno, notò un grosso spadone accanto all’elfo che, finalmente si accorse di lui. “Chi sei tu che hai avuto l’ardire di disturbare il mio sonno?” Disse una voce profonda e melodiosa che sembrava provenire da dietro le sue spalle. Il giovane Nordhmenn non era certo un mago, né aveva certo velleità di conoscere la magia elfica, eppure era quasi sicuro che la persona che gli stava davanti non appartenesse al suo stesso reame. Al reame dei vivi per intenderci. Egli aveva il forte sospetto che quella creatura, così regale e dallo sguardo oltremodo saggio, fosse qualcuno di importante del casato di Celador ormai morto da tempo immemore, che aveva scelto o era stato invitato dalla magia elfica a custodire e a proteggere il buon nome dei Nelothien nel corso dei secoli. Stranamente l’elfo sorrise ai pensieri di Escol, che disse impacciato: “Sono qui per volontà di Enwel Nelothien, mio signore. Lei ha voluto portarmi da voi, affinché decideste se fossi degno del vostro aiuto o meno." L’elfo annuì, poi aggiunse:”Cosicché una mia discendente di nome Enwel ha scelto un giovane umano per ricevere il “dono dei morti”. Scelta singolare, eppure non meno degna di attenzione.” Ribatté l’elfo, appoggiandosi con entrambe le mani ai braccioli del suo sontuoso trono. “Io sono Nelothien, di quello che sarebbe diventato nei secoli l’omonimo casato e sono il custode del mio stesso nome. Tu chi sei, giovane umano?” Per la seconda volta il figlio del Duca deglutì: se quell’elfo stava dicendo il vero, egli era Nelothien in persona, il capostipite della famiglia di Enwel! “Il mio nome è Escol, del casato dei Berge, mio signore. Vengo da lontano e porto un fardello molto pesante sulle mie spalle. Per questo motivo, Enwel Nelothien, guaritrice e veggente, ha voluto condividere l’onere con me, portandomi qui al vostro cospetto.” Affermò Escol, visibilmente emozionato. L’elfo sorrise. Poi aggiunse: “Se una delle mie discendenti veggenti ha scelto te, giovane Nordhmenn, puoi star certo che esiste un motivo. Motivo che io non posso né voglio sottovalutare. Tuttavia dovrai dimostrare di essere abbastanza saggio da meritare il mio aiuto. Accetti dunque la mia sfida?” Escol annuì, ma questa volta in maniera affatto convinta. “Molto bene, allora si proceda.” L’elfo si sporse leggermente dallo scranno e guardando il giovane umano con aria severa, tosto gli domandò: “Tutti la posseggono ma nessuno può perderla, cos'è?” “Una strana, inquietante predilezione per gli indovinelli, vedo…” Pensò Escol tra sé. Eppure sapeva che doveva prestarsi al gioco, se voleva ricevere l’aiuto di Nelothien. In una parte nemmeno troppo profonda della sua anima, percepiva infatti che il suo dono sarebbe stato estremamente prezioso per il prosieguo della sua missione. Il figlio del Duca ci rimuginò su per qualche minuto, poi illuminandosi in viso disse sicuro: “L'ombra. E’ l’ombra!” L’elfo annuì soddisfatto, regalando molta soddisfazione al giovane e perplesso ragazzo che aveva davanti. “Molto bene, Escol. Hai superato il primo enigma. Sei pronto per il secondo?” Questa volta fu il rampollo dei Berge ad annuire, sicuro di sé. “Se pronunci il suo nome, sparisce. Cos’è?” Il figlio del Duca ci mise anche questa volta un po' di più a realizzare quale fosse la risposta esatta, ma alla fine esclamò con un sorriso compiaciuto: “Il silenzio! Deve essere il silenzio!” “Esatto.” Rispose l’elfo con voce calma e misurata. Continuava ad osservare il ragazzo umano con una punta di divertimento, visto che Escol era diventato molto nervoso, come raramente si era sentito prima. Gli enigmi che aveva risolto erano di difficoltà sempre crescente, ed ora temeva per quello conclusivo. Schioccando le labbra, Nelothien si sincerò che il suo interlocutore umano fosse pronto. Poi disse: “Parla senza bocca, ti batte e non ti tocca, corre senza piedi, passa e non lo vedi. Cos’è?”. Come aveva immaginato, l’ultimo indovinello si rivelò essere parecchio ostico. Passeggiando nervosamente per la sala, Escol temette quasi di non riuscire a capire questa volta quale fosse la soluzione dell’enigma. Iniziò a sudare e a balbettare improbabili risposte tra sé e sé. Quando però pensò di arrendersi, si ricordò di quella notte che rimase solo con Enwel: la loro unica e ultima notte insieme. C’era una cosa che rammentava e avrebbe rammentato molto bene per tutta la vita, di quella sera magica e maledetta: il vento dell’ovest che ululava feroce alle sue spalle. Più feroce degli Okar stessi. “Il vento….” Sussurrò tristemente Escol, soffiando la parola tra le labbra secche. L’elfo sorrise compiaciuto ancora una volta, ma nei suoi occhi c’era l’amara consapevolezza di chi sapeva leggere nell’animo delle persone. Sapeva percepire il loro dolore. Fece segno al giovane umano di avvicinarsi. Poi si alzò e pronunciò alcune solenni parole nella sua lingua. Quindi afferrò lo spadone, tenendo una mano sull’elsa e l’altra sulla lama. Senza dire altro gli porse la sua lunga e adornata lama, che emanava degli strani bagliori argentini. Il figlio del Duca allungò le tremanti mani fino a cingere l’arma in un abbraccio quasi affettuoso. Poi alzò gli occhi verso l’elfo che disse: “Questa è la spada del casato Nelothien, un’arma unica che avrebbe dovuto proteggere la nostra famiglia in caso di crisi profonda. Io la do a te nel nome di Enwel. I suoi poteri sono molteplici e ti basterà pronunciare il suo nome per rivelarli. Fanne buon uso, giovane Nordhmenn”. Quindi l’elfo dall’aspetto regale tornò a sedere e al suo sonno antico. Escol teneva la spada stretta a sé mentre risaliva le scale e passava di nuovo oltre lo specchio. Chiunque avrebbe pensato che stesse abbracciando l’arma poiché dono potente e prezioso, ma egli rivelò anni dopo che quell’abbraccio gli era venuto spontaneo pensando ad Enwel. Ed era come se fosse stata lei che aveva tenuto così vicino a sé in quel momento così unico ed emozionante.