«Sembra insormontabile e senza via di entrata e di uscita», notò Urlic.
La prima cinta muraria di Valdor era una cortina alta circa sessanta piedi, merlata e interrotta da torri quadrate. Da fuori non si distingueva un corpo di guardia e gran parte di essa era adornata da una distesa di piante rampicanti, dalle grandi foglie lisce dai margini lobati. Le magnifiche sfumature rossastre del fogliame donavano alle mura un aspetto ancora più antico e infondevano ai tre che le ammiravano, un sentimento di malinconia inatteso, che cercavano di scacciare parlando.
«In realtà, sono quattro le porte della fortezza, ma nessuna è visibile», gli occhi di Arsen stesso erano pieni di stupore per la ritrovata meraviglia di quei luoghi.
«Struttura imponente, non c’è che dire!», a Urlic, così come a qualsiasi altro Finningal, non erano mai piaciute le mura di pietra. Alla loro stirpe non interessava rinchiudersi, i loro picchi scoscesi erano già una protezione naturale sufficiente. In ogni caso, a prescindere dalle montagne, per i Finningal, nessun popolo presente ad Adria poteva effettivamente rappresentare una vera minaccia. Nei secoli si erano sempre dimostrati pacifici e senza brama di potere politico ed espansionistico. Secoli addietro si erano uniti sotto un unico re, del quale Garvin ne era discendente. Da allora, cessarono le rare lotte combattute fra tribù diverse. Le alte vette di Laterman, fino alle coste dell’oceano, rappresentavano il loro dominio, da sempre, e nessuno aveva mai osato rivendicarlo a posto loro.
«Queste spesse mura non sono mai state espugnate», continuò l’uomo che, tenendo lo sguardo fisso sulla fortezza, cercava di rinnovare il ricordo che aveva di esse, quasi avesse il timore di non poterle più rivedere. Un’ inquietudine opprimente gli era sorta da quando avevano varcato le soglie del regno di Faranor: uno strano presentimento cresceva in lui, e questo gli diceva prepotentemente, che da lì in avanti, non avrebbe più guardato quei luoghi con la stessa gioia nel cuore.
«Meglio di qualunque costruzione degli uomini! È assurdo che si considerino così tanto bravi a imprigionarsi in torri, castelli e città fortificate, che le reputino persino belle e che ne vadano così tanto orgogliosi», Urlic non riuscì a trattenere un sorriso sarcastico nel pensare a quello che lui credeva un sintomo, tipico degli umani, di compensazione alla debolezza.
«Capisco la loro invidia: a confronto, le protezioni edificate da loro, devono sembrare agli elfi dei muretti da giardino», gli fece eco il figlio.
«Questo è un avamposto della terra di Garvin, unico nel suo genere e gli elfi occupano questa fortezza solo per periodi limitati. Come voi Finningal, anche la gente di Faranor ama vivere senza restrizioni. Ora però basta, se ci verrà concesso di entrare, avrete tempo per conoscere Valdor. Prepariamo per la notte, prima che faccia buio».
L’indomani quando il sole era già alto, una figura a cavallo scese dall’altura. La mole degli alberi, ben distanziati tra loro e il poco sottobosco presente, permetteva agevolmente l’uso dei cavalli.
«Finalmente sta venendo qualcuno: temevo che ci avrebbero fatto attendere di più», borbottò Probo, alzandosi dal giaciglio che lo aveva visto per troppe ore inattivo.
«Forse sapremo se ci daranno il permesso di entrare a Valdor. Se così fosse, per essere dei visitatori inaspettati, ci hanno messo poco a prendere una decisione», osservò Arsen mentre si accingeva a ricevere il cavaliere.
I tre si trovarono di fronte lo stesso elfo che li aveva sorpresi il giorno prima.
«Siete stati fortunati», disse scendendo da cavallo e rivolgendosi ad Arsen, facendo lo stesso cenno di saluto con il capo fatto il giorno prima, «il figlio di Garvin si trova oggi a Valdor e ha deciso di ritardare la sua partenza per incontrare voi: Arsen e i suoi amici Finningal. Il principe mi ha detto di condurvi nella cittadella e di trovarvi una sistemazione adeguata. Vi riceverà il prima possibile. Ho preceduto le cavalcature a voi dedicate che avevano bisogno di una più adeguata preparazione», riferendosi evidentemente ai finimenti che lui in quel momento non usava.
«Mentre attendiamo, volevo porgere le mie scuse a voi tutti per il mio comportamento di ieri e presentarmi come è giusto. D’ora in poi godrete della ospitalità della mia gente e non dovrete più sentirvi in pericolo», si era rivolto soprattutto ai due accompagnatori di Arsen, parlando con il solito strano accento, «Io sono Adir e sono a capo delle difese del confine».
«Questi sono Urlic di Bortas, cugino di Darsen, sovrano del loro popolo e suo figlio Probo», fu ancora una volta Arsen a parlare per i due suoi amici.
« Bene Urlic e Probo, sono stato scortese con voi, vi prego di accettare le mie scuse»
«Beh!» rispose questa volta prontamente Probo con un po’ di imbarazzo, «stavate facendo il vostro lavoro. Come membro dell’esercito di Bortas e come guardiano del mio popolo mi sarei comportato anche io così».
Adir sorrise, «Spero di rincontrarvi, ma dopo avervi accompagnato dovrò riprendere il mio posto. Mi piacerebbe sapere qualcosa di più sulla vostra gente. Ecco le vostre cavalcature, stanno per arrivare». Un altro elfo aveva condotto le loro tre cavalcature.
«Una cosa, temo, la imparerai subito», Arsen guardò i due ,« I Finningal non cavalcano».
«Il nostro peso sfiancherebbe qualsiasi creatura, e la nostra cultura ci impedisce di usare degli animali sia per spostarci, che per lavoro», spiegò Urlic.
«Capisco, allora andremo tutti a piedi», propose Adir.
«Non è necessario. Siamo molto veloci e non è molto lontano; andate pure, noi vi seguiremo. Vero, padre?», gli occhi di Probo brillavano, come se stesse proponendo una sfida.
Era un popolo ricco di tradizioni e cultura, tuttavia, nei Finningal, sopravviveva l’istinto animale che altre razze avevano perduto.
I loro racconti più antichi riferivano che la stirpe degli uomini-leone discendesse dai grandi felini che un tempo popolano la savana. Un giorno il Grande Leone si mise a correre verso il tramonto. Durante la corsa, alzava lo sguardo per continuare a scorgere il sole, che si nascondeva dietro le montagne. Così , ogni sera, per lungo tempo. Fino a quando, per seguire l’astro luminoso, non si ritrovò eretto sulle forti zampe posteriori, portando lo sguardo dritto di fronte a sé. Giunto alle montagne, cominciò a arrampicarsi ed ad aggrapparsi alle rocce. Arrivato, infine, ai limiti della terra, poté ammirare finalmente il sole tuffarsi nel mare e rimase incantato da ciò che aveva visto. Ormai trasformato nel corpo e nell’animo, rimase sui monti per poter, a ogni crepuscolo, godere di quella visione. Così narrava il mito, e i Finningal non avevano mai smesso del tutto di essere leoni, abituandosi alle montagne.
«Il Grande Leone ci ha donato il suo scatto e la sua resistenza, ho proprio voglia di sgranchirmi un po’», Urlic accettò così la proposta del figlio.
«Giusto padre, raccogliamo le ultime cose, non vedo l’ora di misurarmi con questi destrieri», Probo si era avvicinato a una cavalcatura, saggiandone i muscoli e questa si era dimostrata nervosa.
«Calmati!», aveva scherzato il giovane, «Non voglio mica mangiarti».
«Credo che sia la prima volta che vede … beh, uno di voi», Adir cercava di giustificare il comportamento istintivo dell’animale.
«Non lo biasimo affatto, ho cacciato prede più grandi e pericolose», Probo strizzò l’occhio, forse mostrandosi un po’ troppo fiero di incutere timore.
Ci vollero solo pochi minuti per prepararsi a partire e il gruppetto si mise in marcia. I cavalli mantennero una velocità costante e i due Finningal stettero al passo agevolmente.
Giunsero ai piedi dell’altura dopo poco, e Adir diresse il cavallo verso il muro. Appena giunse davanti a esso, si udì un rumore sordo. Si cominciarono a distinguere due battenti che ruotavano sui cardini, perfettamente mimetizzati dalla vegetazione che li ricopriva.
«Questa è la porta sud», lo stregone si era rivolto ai due Finningal stupiti.
«Venite amici, benvenuti a Valdor! », Adir spronò il suo cavallo, invitando il gruppetto ad entrare.
Si ritrovarono nel cortile esterno. Al margine di esso, una seconda cinta simile alla prima, ma più piccola, proteggeva un grande castello. Quest’ultimo rappresentava l’estrema difesa di Valdor, ed era un massiccia costruzione dall’insolita pianta ottagonale. Ai vertici di ogni suo lato, si innalzavano, sporgendo, otto torrioni a base quadrata dalle mura curve verso l’interno.
Adir condusse il gruppetto oltre la cinta interna, passando per un grande arco ogivale. Costeggiò il mastio e si diresse verso una bassa costruzione.
«Qui ci sono le antiche caserme, oggi trasformate in alloggi, ed qui che starete».
Dopo aver affidato i cavalli all’elfo che li accompagnava, entrarono e percorsero un lungo corridoio, fino a che Adir non indicò due porte.
«Sono semplici, ma con tutto l'essenziale», disse invitandoli a entrare in una delle due stanze.
L’ambiente era occupato da due letti, poggiati sul lato sinistro rispetto all’entrata, e un tavolo di legno con delle sedie al centro. Un basso armadio e due catini con acqua completavano l’arredamento. La luce, che ormai andava scemando, filtrava da una finestra che si apriva in fondo alla camera.
«Spero non sia un problema per voi dividere la camera», chiese Adir ai due Finningal «mi spiace, ma qui non abbiamo altre stanze libere in questo momento»
«Non preoccuparti Adir, quelle che hai scelto per noi andranno benissimo, ma dimmi: quando potrò vedere chi ci ha concesso di entrare?», Arsen si era intromesso, mostrando premura.
L’elfo parlò nella sua lingua e lo stregone annuì, per poi continuare rivolgendosi a tutti loro, «ora vi lascio, stanno già provvedendo a portarvi qualcosa da mangiare».
I tre cenarono insieme, parlando a lungo, infine Arsen si diresse nella sua camera. Quella sera sarebbero andati a letto presto.
CAPITOLO QUATTRO
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- Scritto da Vilia Decrais
- Categoria: I racconti delle terre di Adria
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