«Si può», la porta si aprì senza aspettare risposta. Lo stregone era già in piedi e stava finendo di vestirsi, vagava per la stanza in cerca di uno stivale. 
«Dovevo immaginarlo: quando mi hanno parlato del figlio di Garvin, dei tre ho subito pensato a te». Aveva appena rivolto lo sguardo all’ospite appena entrato, per  tornare subito a quello che più gli premeva in quel momento: stava guardando sotto il letto e la sua caccia alla calzatura mancante era terminata.  
«Arsen, buongiorno! Visto la premura nel farmi questo appunto, non posso fare a meno di chiederti: perché hai pensato a me?». Il visitatore non parve né offeso e né stupito dell’accoglienza ricevuta, anzi ne era visibilmente divertito.
«Semplice, tra tutti  i principi di Valdor, tu sei l’unico che prende decisioni affrettate. Nessuno dei tuoi fratelli avrebbe fatto entrare due sconosciuti nella fortezza senza neanche chiederne il nome». Arsen sembrava deciso a contestare la scelta dell’elfo, anche se questa era stata a suo favore e, visto le circostanze, sicuramente quella che gli avrebbe fatto risparmiare più tempo.
«Stavano con te, questo mi basta.  Adir vi ha visti e vi ha fatto arrivare fin qui liberi e lui non è impulsivo come me», queste  poche parole, dette con apparente noncuranza, celavano in realtà un significato molto più profondo, facendo intendere tutta la fiducia e la stima che il principe aveva nel capo delle sue guardie e nell’uomo che aveva di fronte. 
«Impulsivo, dici! Nessuno, o meglio, pochi  della tua razza lo sono. Spesso mi chiedo da chi tu possa aver preso»    
«Con te sono stato per parecchio tempo!», rise l’elfo.
«Non dare la colpa a me per i tuoi comportamenti così… così», Arsen cercava la parola adatta,  «simili a quelli degli uomini, oserei dire, non ci vediamo più da ... non so più neanche io da quanto!». Arsen allargò le braccia, poi con un gesto si mise a sedere e, finalmente, si infilò lo stivale.
«E io che pensavo che appena mi avessi rivisto mi avresti abbracciato», aggiunse il principe lasciandosi cadere su una sedia vicino allo stregone, simulando delusione. 
 «Elemir, ragazzo mio, ho veramente bisogno di parlare con tuo padre», la voce seria di Arsen lasciava trasparire urgenza, ed Elemir lasciò che gli raccontasse tutti gli accadimenti dei quei giorni. 
Nonostante fosse sulla terra da tempo, l’elfo era considerato giovane per la sua razza.   Arsen era stato presente alla sua nascita e per un periodo era stata la sua guida e il suo mentore. 
Elemir ammirava e rispettava quell’uomo allo stessa stregua del padre. Lo aveva fatto diventare quello che  era: tra tutti i figli di Garvin, lui era quello più vicino al popolo, Elemir non amava le formalità, ed era anche uno dei pochi elfi che intrattenevano rapporti di amicizia con individui di altre razze, non perché quella elfica fosse arrogante e altera, come molti pensavano, ma semplicemente perché sempre meno elfi uscivano dai confini delle loro terre. 
Il principe, con la sua giovinezza, incarnava quelle peculiarità che avevano caratterizzato la sua stirpe per ere  e non aveva dimenticato la voglia di conoscenza del mondo e spesso era partito per lunghi viaggi oltre l’oceano. Era per questo suo carattere che nessuno tra i suoi si era meravigliato nel vederlo, solo, entrare nella caserma per far visita ad Arsen nel suo alloggio. Doveva essere semplicemente un incontro fra amici, fra compagni di avventure passate, fra maestro e allievo e non era necessario un’udienza formale.
Fu solo quando Arsen finì il suo resoconto, che Elemir si alzò di scatto e parlò:
«Mi devi dare quattro, forse cinque giorni. Basteranno  per convincere mio padre a venire»
«Ti  ringrazio e ti prego solamente di fare in fretta. Tu  sai cosa è successo in passato e forse questa volta non si risolverà come allora». Lo sguardo di Arsen si spense per un momento e quelle parole sembravano pesare così tanto da impedire fisicamente allo stregone di rimettersi in piedi come aveva fatto Elemir, e così rimase seduto, affaticato, alzando lo sguardo verso il  giovane elfo che al contrario, era risoluto e pronto all’azione.    
«Vado a sellare Kai. Porgi  le mie scuse ai miei ospiti, parlerò con loro al mio ritorno. Lascerò un ordine che vi permetterà di muovervi liberamente per Valdor, ma i due Finningal non possono uscirne. Non potranno né inoltrarsi nelle nostre terre,  né abbandonarne.  So che hai nominato la città proibita in loro presenza, spetterà a mio padre decidere se sono degni della stessa  fiducia che tu gli stai accordando, anche se appartengono a una famiglia reale.
Tu potrai andartene, ma se devi uscire dalle nostre terre lo dovrai fare adesso, prima della mia partenza, con la promessa di tornare tra tre giorni»
«Credo che ti aspetterò qui, sono stati giorni stancanti. Chiedo, però, il permesso di avere libero accesso alla vostra  biblioteca.»  
«Permesso accordato e ora scusami, mi devo preparare».
Elemir stava per uscire,  quando qualcuno bussò alla porta che era stata lasciata in parte aperta,  e un elfo, che apparteneva alla guarnigione di Adir, fece capolino nell’attesa di  ricevere il permesso di  entrare. A un cenno del principe, l’elfo, manifestando una certa urgenza cominciò subito: «Ho un messaggio dal confine», disse porgendogli una freccia rigata di rosso  e un biglietto.
 Frecce contenenti messaggi o  semplici frecce segnate secondo un codice di colori, lanciate in posti prestabiliti e presidiati, venivano usate per comunicare velocemente. Con  questo sistema  ci si poteva scambiare informazioni senza, di fatto, lasciare le postazioni di guardia.  
«Un uomo è stato avvistato  nella foresta al confine, sembra sfinito, forse  è entrato solo accidentalmente, Adir non è ancora intervenuto», Elemir fece partecipe Arsen di quello che aveva appreso, poi rivolgendosi a alla guardia continuò:      
«Se ha bisogno di acqua e di cibo che gli sia data, che venga poi bendato e condotto fuori dalle nostre terre, non prima che abbia fornito una spiegazione e detto il suo nome, se non è la prima volta che viene sorpreso a vagare nella foresta o sembra mentire, sbattetelo in cella. Me ne occuperò quando lo riterrò opportuno. Questa è la nostra legge.»
 «Manderò subito il messaggio ad Adir, mio signore», l’elfo accennò un inchino e fece per andare quando Elemir volle aggiungere:
«Io sto per tornare da mio padre, gradirei che questa faccenda sia risolta prima della mia partenza.»
 «Se Adir ha sentito il bisogno di informarti immagino che, quel che sta succedendo, sia piuttosto inusuale»,  notò Arsen quando furono di nuovo soli.
«Tutti conoscono i nostri confini e le leggi che regolano queste terre. Non capitava da molti anni ormai. Prima voi e subito dopo un intruso», Elemir non riusciva a convincersi che fosse una semplice coincidenza.
«Mi dispiace Arsen, ma attenderò notizie da Adir. So cosa stai pensando e spero che non ci sia nessuna connessione con quello che mi hai raccontato». Concluse intuendo il pensieri dell’uomo.

«Sono arrivati aggiornamenti  dal comandante Adir», ora Elemir si trovava solo nelle sue stanze  e, impaziente, quasi strappò dalle mani del messaggero il piccolo carteggio.  
«Devo  raggiungere il confine est. Prima  però devo parlare con Arsen.  Che  mi raggiunga alle stalle, la questione è urgente ».
Ordinò  dopo essersi preso il tempo per riflettere.
Poco dopo i due si trovarono riuniti lungo la via che portava all’area adibita ai cavalli, ed Elemir volle aggiornare subito lo stregone. 
«L’uomo nella foresta ha chiesto di poter parlare con il re Garvin o con uno dei suoi figli. Mi  recherò al confine, vorrei che venissi con me.»
«Un uomo qualunque che viola la legge di Faranor, chiede di parlare con un re o un principe  e tu accorri da lui? Cosa non mi stai dicendo?». La  situazione sembrava non promettere nulla di buono. 
«L’uomo ha riferito che le campagne fuori da Utrech sono state attaccate da  Brownie,  parla di un essere alato che ha annientato la sua guarnigione.  Adir riferisce  che l’uomo  porta con sé la stella a quattro punte simbolo della mia famiglia e che dice di chiamarsi Worlag figlio di Amman. Credo  che conosca mio padre». Con queste parole erano giunti a destinazione. All’interno delle stalle i cavalli erano già pronti. Elemir si fermò prima di varcare la soglia, aspettando la risposta di quello che era stato per lungo tempo suo maestro.
«Andiamo dunque», Arsen non ebbe  esitazione, ma poi aggiunse: «non posso andare senza informare i miei compagni».
Il susseguirsi  veloce degli eventi non aveva permesso a Elemir di fare la conoscenza dei  due Finningal, ma si era voluto comunque tenere informato su come si erano sistemati i suoi ospiti.
 «So che  sono usciti poco dai loro alloggi e che forse non si sentono a loro agio.  Manderò Edhal a informarli della situazione e a fargli compagnia.  Spesso ha assunto ruoli diplomatici per il mio popolo e gode della stima di tutti. Sarà la loro guida e vedrai staranno bene anche senza di te.»
Arsen convenne che fosse la scelta migliore e, dopo gli ultimi ordini e preparativi , i due si trovarono a cavalcare verso il confine est.

Mentre Arsen e Elemir vedevano aprire le massicce porte di Valdor,  un elfo dall’aspetto gioviale bussò alla porta dei due Finningal.
«Salve», esordì quando lo fecero entrare, «Sono Edhal. Sono qui per farvi conoscere Valdor e i suoi abitanti. È  la prima volta che ho la possibilità di conoscere  dei Finningal e spero  che siate così gentili da permettermi di imparare qualcosa sulla vostra gente». 
Edhal vestiva un abito di un azzurro pastello.  Differente dal verde che avevano visto indosso a Adir e alle sue guardie. Non aveva l’aspetto di un guerriero e, sebbene anche  i suoi capelli fossero chiari,  questi  erano di una tonalità leggermente più scura e, da quello che avevano potuto vedere i due uomini-leone fino a quel momento, li portava più corti rispetto a tutti gli altri che tendevano a tenerli molto lunghi sulle spalle. 
Urlic decise subito di sfidarlo: «dov’è Arsen? Il tuo principe ha deciso che abbiamo bisogno di una balia?»
L’elfo non sembrò affatto contrariato da come era stato accolto e  spiegò brevemente che il loro compagno aveva lasciato la fortezza, suo malgrado, su richiesta del principe e che si rammaricava di non averglielo potuto riferire di persona e infine aggiunse:
«Sono qui per allietarvi il soggiorno a Valdor. Quando avrete conosciuto la fortezza, potrete muovervi liberamente.  Spero, inoltre, di esservi utile nel caso vorreste sapere di più sul nostro popolo e sul nostro modo di vivere». Detto questo li invitò a unirsi a loro per una passeggiata.
Edhal non seppe mai quale altra risposta scortese gli stesse rifilando il Finningal più anziano, perché prima che questo potesse parlare, il più giovane si mosse per accettare l’offerta, mascherando veramente molto male il suo entusiasmo per quelle creature appartenenti al mito che lo avevano affascinato fin da bambino. Ad Urlic, non volendo discutere con il figlio in presenza di estranei, non gli restò che seguirli, bofonchiando qualcosa che i due non capirono ma che rendeva manifesto il suo disappunto per quella situazione.   
 Passarono il resto della giornata con Edhal e riuscirono, inaspettatamente, anche a scambiare qualche parola con altri elfi presenti che si fermavano, incuriositi dalla loro presenza. La loro accoglienza stupì i due uomini-leone che si aspettavano una certa diffidenza e che credevano che il comportamento gentile  di Edhal gli fosse stato ordinato.
Impararono come era strutturata Valdor: una strada, che tagliava in due la corte esterna, collegava il lato ovest,  dove erano presenti dei magazzini, con quello est, con gli ambienti per i fabbri. Regolarmente lungo tutto il tragitto, erano costruiti dei pozzi. Al centro della via  e ai suoi  due estremi  tre  antichi alberi della foresta, si innalzavano ombreggiando  la costruzione. Tutta l’intera struttura, molto probabilmente non sarebbe stata facilmente  visibile dall’alto. Nel cortile interno oltre alle caserme, trovavano posto le stalle: dopo averle visitate i tre si diressero verso il corpo centrare. Dal  portale che avevano superato il primo giorno, partiva una via lastricata che si apriva in una piazza ovale con una fontana: una piscina rettangolare racchiudeva una vasca circolare nella quale, l’acqua, uscendo a pressione da piccoli canali lungo la sua circonferenza,  ricadeva per colmarla, dopo aver descritto  ampi archi verso l’alto. La vasca così riempita lasciava poi colare l’acqua in eccedenza  nella piscina sottostante. Circondata  dagli zampilli che brillavano ai raggi del sole che riuscivano a filtrare dall’alto, una statua di due cavalli si ergeva al centro: uno, scolpito sulle zampe posteriori, sembrava pronto a lanciarsi in corsa; l’altro, a fianco, sulle quattro zampe pareva scuotere  la criniera, movendo la testa verso il basso. Sul un lato corto della piscina era disposto un quadrante solare: una lastra di pietra bianca con uno stilo perpendicolare, posto al centro di essa. Numerose incisioni frazionavano le giornate dal crepuscolo al vespro tenendo conto delle diverse stagioni.
La sera si era conclusa nella  mensa della caserma e i due Finningal avevano cenato, bevuto e conversato con quasi tutti gli elfi presenti nella sala. Gli mancava solo di visitare l’interno del castello, ma per quello avrebbero dovuto aspettare il ritorno di Arsen e del principe.  

Usciti da Valdor,  i due cavalieri si inoltrarono nella foresta, senza seguire un sentiero prestabilito, ma cavalcando quanto più speditamente glielo potessero permettere i grandi alberi.  Stava  già facendo buio quando raggiunsero una radura. Al centro di essa un Alderin Narè era spezzato. La parte del tronco ben ancorata nel terreno, scheggiata, puntava verso il cielo, come un dito di un vecchio dalla lunga unghia rigata che, con fare accusatorio, indicava la causa della propria disfatta. 
Sceso da cavallo, Elemir prese una freccia dalla faretra con un intarsio azzurro, simbolo reale, tese l’arco e lanciò.  La freccia si conficcò proprio su limite appuntito dell’albero. Dopo  poco, una scala di legno fu tirata giù dall’alto e i due salirono, mentre i cavalli vennero lasciati liberi di pascolare.
Arrivati in cime alla scala furono accolti su una pedana piatta, grande quasi quanto il  diametro del tronco, che fungeva da rifugio. Era un unico grande ambiente sfoglio.
Adir si fece avanti salutando Elemir che gli tese il braccio e i due si scambiarono  una stretta amichevole.  Visto lo stregone, il biondo elfo gli riservò il solito gesto del capo.
«Venite, è qui!», disse poi spostandosi di lato e lasciando libera la vista di un angolo poco illuminato.
Lì, un uomo sedeva con le gambe incrociate. Aveva le mani legate dietro la schiena e un lembo di stoffa, che era servita da benda,  ora gli  ricadeva sul collo. Accanto a lui, da entrambi i lati, si ergevano due guardie.  
Era vestito come un  capitano dell’esercito di Utrech, capitale delle terre di Angar, e le sue armi, una lunga spada e una balestra con la faretra, erano poggiate sulla parete laterale lontano dalla sua portata.
Era sicuramente un guerriero. Benché non più giovanissimo, aveva l’aspetto e il fisico di chi era sopravvissuto a molte battaglie  e una di esse sembrava l’avesse affrontata da molto poco. La sua armature così come il suo volto, circondato da una corta barba e da scuri capelli, riportavano evidenti tracce di sangue. L’uomo stesso aveva una ferita ancora aperta sul lato destro della fronte.
Quando Elemir si avvicinò, l’uomo si alzò e sembrò volesse andargli incontrò. I due elfi con un movimento fulmineo estrassero i coltelli e glieli puntarono alla gola,  il soldato rimase con gli occhi puntati sull’elfo.
«Chi sei tu? Perché sei qui? Parla in fretta», gli intimò il  principe.
«Sono Worlag, figlio di  Amman.  Re Garvin, ha combattuto a fianco del padre di mio padre donandogli il ciondolo che la mia famiglia ora si tramanda e che adesso  mi è stato strappato via ».
Adir porse  un piccolo ciondolo al principe, che lo guardò per un attimo: una stella a quattro punte d’argento incastonata in una pietra lucidata, scura e iridescente, dai riflessi blu.
Elemir fece cenno ai due elfi perché lasciassero libero il capitano. Quando anche i legacci che gli costringevano le braccia caddero in terra, il giovane elfo, che percepiva sofferenza nello sguardo dell’uomo, gli porse il ciondolo, poggiando delicatamente il gioiello  sul palmo della sua mano. Con la stessa accortezza,  mosse le dita dell’uomo affinché potesse richiuderle intorno al quel simbolo tanto caro. Per un attimo le bianche mani dell’ elfo si strinsero su quella dell’uomo, racchiudendola.  
«Io sono Elemir, il figlio di re Garvin.   Raccontami  quello che ti è accaduto e che ti ha spinto a entrare nel regno di mio padre e a richiedere la mia presenza».
 
Il racconto di Worlag cominciò: «Era l’alba, ormai saranno passati sei o forse sette giorni, quando i contadini delle terre di Angar si presentarono alla porta di Utrech. Decine e decine di persone erano fuggite dalle proprie case terrorizzate. Riportavano tutte la stessa storia: erano scappate da una nebbia che si spandeva sulle nostre terre. Parlavano di urla provenienti dalla coltre, dicevano che chiunque ne fosse entrato non ne usciva più.
Il consiglio mandò me e alcuni dei  miei  incontro al fenomeno. In nessun modo dovevo mettere in pericolo i miei uomini, ma quando arrivammo…», fece una pausa, spostando lo sguardo affranto verso il basso, il ricordo era ancora troppo doloroso.  Poi, alzando di nuovo il capo, riprese con voce ferma: «vedemmo la  nebbia, avanzava  a velocità costante verso Uthech.  Era  fitta, grigia e impenetrabile, malvagia persino. Ordinai di rimanere a distanza, almeno fino a quando non avessimo avuto indizi su cosa fosse quella dannata cosa, ma accadde l’imprevedibile e  ci trovammo avvolti da essa e persi di vista i miei uomini. Ricordo che  li chiamai», i suoi occhi prima fissi sul principe si abbassarono nuovamente, mentre scuoteva mestamente la testa, «a uno a uno li chiamai, ma sentivo solamente delle urla. Ad un tratto ne riuscì a scorgere uno  mentre veniva afferrato e disarcionato, spinsi il mio cavallo verso di lui ma venni attaccato, fu solo quando mi vennero tanto vicino da sentire il loro respiro che mi accorsi con chi stavo combattendo. Erano Brownie. Quei  maledetti vivono costantemente tra gli effluvi delle acque salmastre e sapevano muoversi bene. 
 Ricordo che lottai con tutte le mie forze colpendo con la mia spada tutto ciò che faceva rumore, ogni piccola mano di quei esseri che cercava di ghermirmi.
 Inoltre, sono più che sicuro che non fossero soli, io non sono riuscito a vedere con chiarezza,  ma sopra di me qualcosa sbatteva le ali, riuscivo a percepirne lo spostamento d’aria quando scendeva  di quota.  Riuscì a mettermi in salvo, e non trovai più nessuno. Avevo sorpassato la nebbia e rimasi per un po’ a vagare tra gli alberi sperando di non essere visto. Ero esausto e credo di aver anche perso i sensi. Quando ritornai lucido il mio cavallo  mi  aveva condotto al limite della foresta di Faranor.   Mi  toccai il petto e vidi che avevo ancora il pendente, simbolo dell’antica amicizia tra mio nonno e vostro padre. 
So  che nessuno può varcare il vostro confine senza essere scoperto. Considerando la situazione, essere catturato da voi mi è sembrata l’unica occasione per sopravvivere e poter raccontare la mia storia. La  mia vita è nelle vostre mani, sono solo un capitano che non è riuscito a proteggere i suoi uomini, chiedo  solo che il mio popolo possa essere avvertito». Strinse  i pugni quando finì il suo racconto.
«Il tuo cuore è provato e il tuo dolore è forte, ma ti prego, non disperarti per non essere morto con i tuoi compagni. Non è di certo per mano mia o della mia gente che tu perderai la vita. Se questo dovrà mai accadrà, morirai impugnando la tua spada in battaglia, come si addice a un guerriero e non prima di aver onorato i tuoi caduti», Elemir cercò di confortarlo.
«Ho conosciuto tuo nonno del quale tu porti il nome, Worlag figlio di Amman» , intervenne lo stregone fino a quel momento restato in disparte ad ascoltare  «e anche tuo padre quando era poco più di un bambino»
«Come è possibile?», chiese il capitano accorgendosi che quelle parole provenivano da un uomo, ma poi guardandolo meglio sembrò capire:  «Allora voi, mio signore, siete Arsen!», gli occhi dell’uomo per un attimo tornarono a brillare.  
«Mio nonno parlava spesso di voi nei suoi racconti. Di  tutti voi!», ripeté rivolgendosi di nuovo ad Elemir «ma, scusate se mi permetto, era così diversa la descrizione che faceva dei figli di re Garvin»
«Perché non parlava di me , io sono il terzo figlio del re e sono molto più giovane dei miei fratelli e diverso da loro. A quel tempo non seguivo mio padre. È per questo che tuo nonno non mi ha conosciuto.»
 «Non volevo mancarvi di rispetto mio principe, so che gli anni non turbano i tratti del viso del vostro popolo, ma i vostri occhi, sembrate perfino più giovane di me.»
«Non così giovane però… Propongo di mangiare e di metterci in viaggio domani»,  tagliò corto Elemir, che poi si rivolse nuovamente all’uomo, doveva decidere la sua sorte:  « sarete  ammesso a Valdor, Worlag  figlio di Amman e capitano di Angar,  dovrete viaggiare bendato e cavalcherete con Adir. Non  avrete il permesso di tenere le armi»
 Quella notte, i due elfi di guardia si ricongiunsero alla loro compagnia, dopo aver portato ai quattro cibo, del buon vino e aver recuperato i cavalli di Arsen, Elemir e Worlag. 
Il capitano era ancora visibilmente provato, ma dopo il pasto ed essersi curato la ferita sul capo, sembrava più tranquillo e rispondeva con gentilezza alle domande che Arsen e Elemir gli ponevano.
Si preparavano per la notte quando  Elemir si avvicinò al capitano:
«Spero che un giorno troverai un momento per raccontarmi la storia di tuo nonno. Mio  padre in passato ha stretto spesso rapporti di amicizia con voi uomini, ma ricevere in dono un gioiello con lo stemma della mia famiglia, che da innumerevoli anni rappresenta tutto il mio popolo, è raro anche tra gli elfi stessi. Porti il nome di una persona che deve essere stata molto speciale  Worlag figlio di Amman» 
«Sarà un onore principe», riuscì a dire il capitano visibilmente commosso. 
  
Il giorno dopo, quando montarono a cavallo, Arsen volle rivedere i suoi piani: 
«Ho riflettuto a lungo Elemir. Visto le nuove notizie portate da Worlag, io ti chiedo di poter usufruire di quanto mi dissi a Valdor: Vorrei  partire. Hai la mia promessa che tornerò tra tre giorni»
«Ricordo cosa ho detto, e preferirei averti con me,  ma dovrò onorare la parola data. Ti  aspetterò a Valdor tra tre giorni e vedi di fare di tutto per esserci, perché se non sarà così, saprò che qualcosa di grave ti trattiene»
«Elemir», Arsen si era avvicinato abbastanza per non farsi sentire dagli altri, «ragazzo mio, non sarà certo un po’ di nebbia e dei Brownie a impedirmi di tornare da te».   Allontanandosi aggiunse:  «sarò alle porte di Valdor prima del calare della notte del terzo giorno. Arrivederci, prenditi cura di te!»
Le strade dei due si divisero: Arsen si diresse verso il confine con Angar; Elemir e Adir, che portava Worlag piuttosto a disagio in quella situazione, si mossero verso ovest prendendo la strada più corta per Valdor.  Arrivati,  Worlag avrebbe vissuto con le stesse libertà e restrizioni dei Finningal. Adir e Elemir invece non potevano fermarsi e sarebbero ripartiti subito: uno per riunirsi alla sua compagnia, l’altro verso  Erellen.
Elemir era piuttosto ansioso di ricongiungersi al padre. Era sicuro di aver agito per il meglio in questi giorni, ma stava accadendo qualcosa che richiamava i tempi antichi e che  il padre e forse i suoi due fratelli potevano capire appieno. Per ora doveva avere pazienza, era rallentato dalla presenza di Worlag, da Valdor in poi, sarebbe stato solo e allora avrebbe potuto cavalcare velocemente come solamente uno della sua razza sapeva fare.