Le marce forzate che si erano imposti avevano sfiancato i tre.
Il giorno dopo l’assenza di Arsen, erano usciti dal bosco e nei giorni seguenti avevano camminato per lo più in salita, percorrendo sentieri battuti solo dagli animali selvatici in direzione della catena Laterman. Successivamente avevano deviato verso nord est, passando nelle vicinanze di Camphum, ed infine, piegando decisamente verso destra, avevano incrociato la Via dell’Est a poca strada da Crocevia. La scelta dell’itinerario da percorrere era stato inizialmente fonte di perplessità per i Finningal che conoscevano le insidie di Camphum, terra popolata da strane creature, e quindi scelsero di aggirarlo. Avevano convenuto di non fermarsi a Bortas, dal momento che Arsen aveva palesato più di una volta una certa urgenza di arrivare a destinazione. Questo avrebbe significato perdere la possibilità di avere scorte sicure di cibo e acqua e soprattutto di non poter conferire con il loro re, ma perché non arrivare al più presto alla Via dell’Est? il cammino sarebbe stato sicuramente agevolato e, visto la fretta manifestata, indubbiamente più veloce.
La discussione che ne era scaturita aveva acceso gli animi solitamente tranquilli:
«Potremmo seguire il più possibile la Via dell’Est», aveva suggerito Probo.
«No!», aveva risposto seccamente Arsen, non abituato a dare spiegazioni sulle sue decisioni.
«Mio figlio ha ragione, ne risparmieremmo in tempo e in fatica. Arranchiamo da giorni in cerca di sentieri».
«Siete forse stanchi?», era ben cosciente che quelle parole avrebbero irritato i Finningal, così orgogliosi della loro resistenza fisica e mentale, ma, dovette ammetterlo almeno con se stesso, le aveva pronunciate comunque per stizza, dovuta principalmente alla stanchezza. La premura che sentiva di avere, a dispetto di tutti quei giorni passati nella pace della sua casa, ignaro, mentre forze oscure tramavano, lo rendevano furioso con se stesso e, come il più comune degli umani, stava manifestando la sua frustrazione ferendo chi gli stava vicino.
«Arsen!», ora Urlic si era fermato. I suoi fieri occhi guardavano dall’alto verso basso lo stregone che non si mostrava impressionato.
«Ti abbiamo seguito, non abbiamo fatto domande, ma non siamo i tuoi animali da soma, loro seguono il padrone, noi non ne abbiamo. Se faccio qualcosa vorrei che sia io a decidere o perlomeno sapere cosa sto facendo. Ti abbiamo dimostrato la nostra gratitudine per l’aiuto che tu ci dici di voler dare. Dammi una buona ragione per seguirti ancora.»
Per un attimo i due si guardarono negli occhi in silenzio. Due temibili esseri a confronto. Probo aveva assistito alla scena senza intervenire, aveva la sensazione che anche solo un respiro poteva rompere quel delicato equilibrio. Attendeva, anche se non riusciva a immaginare cosa stesse aspettando.
Tutto si risolse in pochi attimi quando Arsen ruppe il silenzio.
«Una ragione per seguirmi mi chiedi? Avete scelto voi di farlo!», disse continuando a fissarlo negli occhi. La tensione crebbe a dismisura e Probo temette che da lì a poco un suo intervento sarebbe stato necessario.
«Credo, tuttavia, che ve la darò comunque», in un attimo era ritornato ad essere quello di sempre, i suoi tratti si rilassarono, mentre Urlic conservava il suo sguardo duro.
«Abbiamo più possibilità di restare inosservati. Anche se mi sono ritirato nella foresta di Mira, molte persone mi potrebbero riconoscere e pormi domande a cui non ho voglia di rispondere, molte altre potrebbero riconoscere voi, e non tutti potrebbero essere nostri amici. Chi ci ha attaccato ha sicuramente un piano più grande di quello di distruggermi casa e forse non si aspettava di trovarvi o vi ha seguito, non lo sappiamo. In verità siamo all’oscuro di molte cose e credo che se ancora non conosciamo le mosse del nemico, non c’è motivo di fargli sapere in anticipo le nostre.»
«Bene», riuscì a dire Urlic apparendo soddisfatto «andiamo!»
Quel giorno, dopo quell’accadimento, poche furono le parole scambiate e solo il mattino successivo l’incidente parve dimenticato, per la contentezza di Probo che si era trovato a dover condividere il cammino con due fin troppo scorbutici compagni di viaggio.
Quando finalmente raggiunsero la Via dell’Est, pochi erano stati i viandanti incontrati, per lo più uomini diretti alla Via Sud.
Il Crocevia era un piccolo villaggio con più locande che case. Si chiamava così proprio perché sorto all’intersezione con le due grandi vie principali: la Via dell’Est, che dalle terre di Angar, attraversava i monti per arrivare al mare; e la Via Sud che proseguiva fino al Lago Dorato per poi continuare costeggiando il Corsoro. Di giorno, nella piazza, si discuteva di affari e si scambiavano merci di ogni tipo, la sera, chi aveva fatto dei buoni accordi, mangiava e beveva in allegria nei locali. Si incontravano perlopiù uomini e qualche commerciante Finningal. Era molto raro, sebbene Faranor non fosse lontana, scorgere invece degli elfi, che usavano il Crocevia come passaggio e raramente si fermavano. I contratti di tipo commerciale, quando erano necessari, questi ultimi li trattavano direttamente con i governi delle città interessate, recandovisi di persona.
Arsen, Urlic e Probo passarono di notte, quando poche erano le persone in strada, procedendo nella semioscurità, illuminati dalla luna e dalle poche luci poste all’entrate delle locande per segnalarne la presenza. Inosservati, si lasciarono alle spalle una buona occasione per dormire in un letto, proseguendo verso nord.
Il giorno successivo fecero solo una breve pausa e all’alba erano già in cammino.
«Ora siamo al sicuro da qualsiasi nemico», annunciò tutto a un tratto lo stregone, «siamo entrati nel territorio degli elfi, sicuramente da qui a poco sapranno della nostra presenza e presto li incontreremo».
«Ad una sola destinazione conduce questa via. È a Valdor che vuoi arrivare ? E chi cammina con te?», la voce sembrava giungere dagli alberi.
«È esatto» , rispose Arsen facendo segno di fermarsi e guardando in alto tra le fronde, «e porto con me due amici», concluse rispondendo a entrambe le domande.
«Amici, dici! E di chi? Tuoi o del mio popolo e perché hanno le mani posate sulle loro armi?».
«Sono Finningal, come puoi vedere», disse mentre faceva cenno ai due di abbassare la guardia, «non sono mai stati vostri nemici. Mostrati, di grazia, non sono abituato a parlare con gli alberi».
«Eccomi, sono qui», la figura dalla quale proveniva la voce, che fino a quel momento credevano trovarsi di fronte a sé, si palesò alle loro spalle e, proprio mentre si giravano verso di lui, altri cinque uscirono allo scoperto, circondandoli.
L’elfo che aveva parlato si avvicinò prima a Urlic, poi a Probo, squadrandoli con i suoi occhi blu. Si fermò davanti al giovane Finningal e accennò un sorriso, infine si girò verso Arsen. Il suo capo si piegò leggermente in segno di rispettoso saluto, che tuttavia durò un momento, poi continuò: «So chi sei. Sei sempre stato il benvenuto nelle nostre terre. Ma tu viaggi da solo e a nessun altro è permesso recarsi a Valdor senza il consenso di re Garvin.»
«Vi prego allora di andare ad annunciare il nostro arrivo, poiché si tratta di una cosa della massima importanza, credimi! Voi potete precederci, arrivare fino a Erellen e chiedere a re Garvin di riceverci», il viso dell’elfo si turbò per un attimo.
«Ci sono cose che non andrebbero dette, Arsen»
«Ti ho appena detto che ci si può fidare di loro! Aspetteremo quanto è necessario, ma dobbiamo vedere il tuo sovrano».
«Se hai fretta passa tu solo, potresti rimandare questi due indietro», il tono dell’elfo, seppur si mantenesse pacato, si fece provocatorio.
Urlic stava per dire qualcosa, ma Arsen parlò per primo:
«No! È per loro e con loro che sono giunto fin qui. Agli elfi non interessa più il mondo al di fuori delle loro terre? Portiamo notizie che meritano di non essere sottovalutate».
L’elfo si prese una lunga pausa, guardò di nuovo Arsen, poi i due Finningal. Stava evidentemente pensando. Aveva parlato lentamente, con uno strano accento, come se non usasse spesso la lingua corrente. Il suo sguardo era tranquillo, i tratti delicati erano incorniciati da lunghi capelli biondi.
Dopo aver riflettuto, fece un cenno e i cinque che lo accompagnavano sparirono negli alberi senza fare rumore.
«Avviatevi! Arriverete fuori dalle mura di Valdor in serata. Aspettate lì mie notizie.», disse dileguandosi allo stesso modo dei compagni, senza aspettare risposta.
«Ma come hanno fatto? Erellen è la città proibita, vero? Quella delle leggende? E ora, ci lasciano andare i giro per le loro terre così?», passata la paura di essere trafitto dalle frecce degli elfi, Probo era fin troppo eccitato da quell’incontro con quelle creature così affascinanti.
«Quante domande!» riuscì solamente a dire Arsen, prima di essere interrotto da Urlic, «Gli elfi ci circondano e poi se ne vanno? Io non mi fido!»
«Non ti fidi? Loro lo hanno fatto invece. Ci lasciano arrivare a Valdor come uomini liberi.»
«Erellen è una città? È quella leggendaria che pochi hanno potuto vedere o sono tornati vivi per raccontarlo? » Insistette Probo, deciso ad ottenere una risposta.
«È un particolare del quale non avrei dovuto parlare, è stato molto scortese da parte mia, ma dovevano comprendere di non essere in pericolo. Erellen è la dimora di re Garvin, il cuore della foresta di Faranor. Nessun mortale può metterci piede. Il popolo elfico non ama che il nome della loro città sacra venga nominato in presenza di estranei e non tollerano che questo esca dalla bocca dei mortali. Sperano che prima o poi, con il passare delle vite degli uomini, questi se la possano completamente dimenticare. Un tempo, solo pronunciare il nome di Erellen, fuori da Faranon, sanciva la condanna a morte del malcapitato che osava farlo o forse ancora è così. Ora non ricordo. Fossi in voi non rischierei e mi assicurerei di tenere la bocca cucita, non solo fuori di qui, ma anche a Valdor », Arsen appariva evidentemente soddisfatto e inaspettatamente allegro, sebbene stesse prospettando ai due una possibile esecuzione, se solo si fossero lasciati sfuggire quel nome durante la permanenza in quelle terre.
«Bella prospettiva, avrei preferito non saperlo», disse rassegnato Probo, stupito dell’attuale stato d’animo dello stregone così in contrasto con le sue parole sulla vita e la morte.
«Stavi forse scherzando?» gli chiese dopo un po’, preoccupato della sua incapacità di tener a bada la lingua e la curiosità.
«No. Ma ci penserai dopo, giovane amico, ora non abbiamo altra scelta, dobbiamo proseguire».
Fu questa l’unica risposta che ottenne.
La strada, prima ben lastricata, si interruppe e davanti a loro il paesaggio cambiò. Se prima la vegetazione che li circondava consisteva in una fitta foresta eterogenea dal sottobosco intricato, ora, davanti ai loro occhi, si estendeva una distesa di alberi dall’altissimo fusto grigio e grandi rami che lasciavano filtrare pochi raggi di sole. Lo spettacolo toglieva il fiato: queste enormi braccia parallele al terreno correvano come grandi strade dagli interminabili incroci e vie sempre più sottili, fino a terminare in fronde ricolme di foglie lunghe e appiattite. Quegli alberi sembravano fossero nati e cresciuti insieme alla terra stessa.
« È stupefacente!», il giovane Finningal si mostrava scosso da quello spettacolo, « la bellezza e la grandezza di questi alberi è stupefacente», continuò entusiasta, « sulle nostre montagne ne vivono di simili, ma più piccoli e non credevo che nella mia vita avrei mai usato “piccolo” come aggettivo per descrivere i nostri alberi più belli, che da più di mille anni crescono sulle terre abitate dalla mia gente. Non avevo mai visto nulla di simile!»
«Tante volte», aggiunse Urlic, «mi sono stupito davanti alle bellezze generate dalla terra: fiumi, monti e alberi mi avevano lasciato senza parole, ma questo è uno spettacolo che riesce a commuovermi. Provo a immaginarmi la vita di queste creature, tuttavia non riesco. Non riesco a credere che la loro vita abbia avuto un inizio e non posso pensare che abbia una fine. Dimmi Arsen: sono forse senza tempo, come le montagne o anche come il cielo e le stelle?”
«Le montagne, il cielo e anche questi alberi Urlic hanno avuto un inizio. Il tempo con loro è stato magnanimo. Mai a nessun essere mortale è stata concessa vita più lunga e non credo che mai uomo o animale che ora vive su questa terra, nascesse anche in questo momento, potrà mai vedere un albero della foresta di Faranor, anche il più anziano, giungere alla fine dei suoi giorni.» Arsen si avvicinò a uno di essi e posandoci una mano continuò: «Gli Alderin Narè, così vengono chiamati dal popolo che abita questa terra, sono alberi molto vecchi. La foresta di Faranor è la più antica di questo mondo, è considerata sacra dal popolo elfico ed è da loro salvaguardata», detto questo si girò di scatto, quasi si fosse risvegliato da un sogno.
«La strada termina qui, nessuna via è segnata. Gli elfi non lasciano traccia del loro passaggio.
È per questo che nessuno può arrivare a Valdor senza preavviso e senza permesso. Il fortunato che ottiene questo raro onore, deve essere scortato da chi conosce la via, anzi, le vie, e gli elfi riescono sempre a far perdere i punti di riferimento e l’orientamento.
«Chissà poi perché sono così sospettosi?», provò a chiedere il più giovane Finningal, distrattamente, come se non pensasse ci fosse una risposta a quello che per lui era semplicemente una caratteristica innata di quel popolo.
«Non è stato sempre così. In passato l’accoglienza degli elfi era apprezzata in tutto il mondo e tutti potevano godere della bellezza delle loro città. Hanno insegnato tanto a chi popolava il continente, ma c’è stato chi ha tradito la loro fiducia e il popolo di Faranor è stato costretto a compiere azioni odiose. È gente buona e compassionevole: proteggendo se stessi, proteggono anche gli avidi, che nella bellezza vedono solo potere e ricchezza. Ma basta parlare è ora di andare!»
Si inoltrarono per quello che poteva apparire un labirinto. Arsen si muoveva con la solita sicurezza e agilità. Il percorso che scelse era tutt’alto che dritto: deviarono parecchie volte e i Finningal ebbero anche l’impressione di passare più volte nello stesso punto, ma non ne avevano tuttavia la certezza. Molti erano i luoghi uguali ad altri, nessun particolare sembrava distinguerli.
«Come è il loro re? Tu lo conosci, vero?», Probo ruppe il silenzio che era sceso sui tre da quando avevano lasciato la strada, ormai si stava facendo sera.
«Certamente, da lungo tempo»
«E… come è … insomma come quelli che abbiamo visto? A me sembrano tutti uguali»
«Oh! Beh, giovane Probo, probabilmente anche per loro voi lo siete!», Arsen rideva di gusto.
Probo rimase in silenzio. Arsen, pur scherzando, gli aveva dato qualcosa su cui riflettere e per un attimo rimase a pensare a quante poche volte si era imbattuto in qualcuno diverso da un Finnigal e come avesse prestato poca attenzione alle piccole diversità che distinguono un individuo da un altro.
Un cervo è sempre e solo un cervo, così come un canarino è solo un canarino tra i tanti, pensava, per lui era stato così anche per gli uomini che aveva incontrato. Si promise di prestare più attenzione in futuro. In fondo, pensò, aveva passato molti giorni con Arsen ed era certo di poterlo riconoscere tra tanti umani.
I suoi pensieri vennero interrotti dalle parole dello stregone che esclamò: «Come potete vedere, sono stato bravo, dopo tutti questi anni, a ricordarmi la strada. Ammirate la grande fortezza degli elfi! Ci fermeremo qui per la notte, domani avremo notizie».
Si trovarono ai piedi di una altura naturale, circondata da alberi che la nascondevano completamente. Di fronte a loro si innalzavano le prodigiose mura di cinta di Valdor.
CAPITOLO TRE
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- Scritto da Vilia Decrais
- Categoria: I racconti delle terre di Adria
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